BERLINALE 59 – "Katalin Varga", di Peter Strickland (Concorso)

Katalin Varga
Interessante opera prima del giovane regista inglese. Ammaliante (a volte troppo) ricostruzione di atmosfere torbide e sinistre, grazie anche al lavoro sul suono di György Kovacs, collaboratore di Béla Tarr. Dell'autore ungherese manca ancora quello sguardo ruvido e penetrante, per cui dai suoi corpi ti senti inesorabilmente coperto, ma Strickland è una piacevole scoperta da seguire in futuro

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katalin vargaKatalin e’ cacciata di casa non appena il marito scopre di non essere il padre del loro unico figlio, Orban. Katalin quindi non ha scelta: parte con il suo calesse, insieme al figlio alla ricerca del suo vero padre, facendo credere ad Orban di andare a trovare la nonna ammalata. Un lungo viaggio nei Carpazi. Katalin non aveva mai confessato a nessuno che in realtà è rimasta incinta a seguito di una violenza carnale subita da due uomini nel bosco. Mentre è in viaggio, attraversa i luoghi in cui era stata in passato ed anche quelli che le ricordano il tragico evento. In uno dei suoi soggiorni, riconosce in un villaggio, uno dei suoi aggressori, e da quell’istante Katalin non sarà più la stessa.

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Primo lungometraggio per il trentaseienne regista inglese Peter Strickland, autore in passato per il teatro e di diversi cortometraggi, nonché fondatore del “The sonic Catering band”, progetto artistico che si muove all’interno della sperimentazione acustica. Nota non da sottovalutare considerando che questa convincente opera prima ha anche alle spalle un grande esperto al missaggio, György Kovacs, fedele collaboratore dell’ungherese Béla Tarr. È proprio la ricostruzione delle atmosfere torbide e sinistre, attraverso, rumori, effetti sonori, a catturare l’attenzione. In più, la crudezza della storia non cede mai al pietismo e soprattutto sembra incastrarsi dopo la sofferenza e poco prima della tragedia. L’apparente freddezza che non lascia totalmente sentire il dolore, è tutta in quei reiterati fuori fuoco dei piani lunghi, o negli sdoppiamenti di oggetti immobili che prendono vita, anche se solo per pochi istanti. Tornando a Béla Tarr, certamente siamo ancora lontani da quel ruvido e penetrante sguardo, poeticamente macchinoso, lento sino allo spasimo, dell’autore ungherese, che sembra muoversi tra corpi giganti del bianco e nero e della teatralita’ del dramma. Ma dello stesso, Strickland pare però abbia fatto sua quella confusione dell’uomo con la natura ( in una scena Katlin appare lentamente dal buio della notte), di una visione “chiusa” dal e sul mondo della quotidianità sconvolta per una tragedia.

Anche il segno cinematografico si ripete sempre, come una visione del mondo ormai quella, ma e’ una ripetizione da fuoricampo, caparbia e sensibile attenzione alle sfumature, ai dettagli infinitesimali di luce, suoni, movimenti del tempo, modulatori delle immagini: il fuori di Strickland non e’ mai del tutto escluso, esiste e si annuncia, arricchisce e smargina il dentro, nel nero finale, ancora e per sempre al di qua del tunnel. E’ crudo, e’ duro, come il sudato pane del giorno prima, anche se da quei corpi non ti senti inesorabilmente coperto, non li senti propriamente addosso.          

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