VENEZIA 66 – "My Son, My Son, What Have Ye Done?", di Werner Herzog (Concorso)
Il secondo film del Maestro tedesco a Venezia 66 si basa su una storia vera, trasfigurata nel delirio religioso di un giovane uomo che uccide la madre e si barrica nella sua villa, circondato dalla polizia. Un perfetto personaggio herzoghiano, l’incarnazione del bisogno di render sacra e assoluta la propria visione. Ma ciò che definisce quest’opera è il disegno di un universo in cui la verità dei fatti assedia il delirio e l’ossessione di questo moderno Woyzeck. Interpretano Willem Dafoe, Michael Shannon, Brad Dourif, Chloë Sevigny, Udo Kier. Produce David Lynch
My Son, My Son, What Have Ye Done parte da una storia vera (matricidio a San Diego, California) ma ovviamente non ha nulla di vero: Werner Herzog è pur sempre il regista de L’ignoto spazio profondo, l’illustratore di mondi che si definiscono nello spazio mentale di una visione, nella ricostruzione di scenari che invertono il portato immediato della realtà. E questo suo nuovo film è esattamente l’elaborazione dello spazio mentale del suo protagonista, ruota attorno ad esso come un compasso che fa perno sulle sue ossessioni. Si direbbe la medesima dinamica del suo Cattivo tenente, solo che al delirio pagano del “bad lieutenant” sostituisce la mania religiosa di un giovane uomo; per non dire che qui delle ossessioni di Brad non siamo partecipi (non ci stiamo, non le vediamo), ma le assediamo assieme ai poliziotti e le raccogliamo attraverso le testimonianze di chi gli è stato accanto prima che impugnasse la spada con la quale ha ucciso la madre sotto gli occhi delle vicine di casa; prima che si chiudesse nella sua villetta rosa, dichiarando di avere due ostaggi e costringendo la polizia a un assedio inutile.
Ovviamente non c’è da credere alla detection, ché questo è un film che svela gli eventi senza procedere, con moto concentrico, definendo un preciso raggio d’azione nel quale chiude e rende invisibile il suo protagonista, lasciando che sia il perimetro di chi lo circonda a definire l’area interna… Brad, in sé e per sé, è il perfetto personaggio herzoghiano, l’incarnazione di un bisogno di render sacra e assoluta la propria visione, ma ciò che definisce My Son, My Son… è il rapporto tra il centro e la periferia, il disegnare un universo in cui la verità dei fatti assedia il delirio e l’ossessione di questo moderno Woyzeck. Lo senti che Herzog è interessato a rompere questo disegno, e percepisci anche che sta tracciando una mappa mentale in cui spinge il suo protagonista (il Perù,
C’è infine da dire che My Son, My Son… porta la firma produttiva di David Lynch, dato questo che ha indotto qualcuno a considerarlo una sottomarca lynchana elaborata da Herzog – come se l’uno avesse davvero bisogno dell’altro per potersi esprimere… Le sospensioni, il senso dell’assurdo nel gioco coi personaggi, le attenzioni astratte nella definizione dello scenario sono solo strumenti che Herzog utilizza per definire proprio quel perimetro che appartiene al fuori scena mentale di Brad, alla sua assenza dal reale.