#Venezia72 – Italian Gangsters, di Renato De Maria
Un documentario sulla malavita italiana che racconta una stagione di trasformazioni del nostro paese con un linguaggio pop
Dopo La vita oscena Renato De Maria torna a Venezia nella sezione Orizzonti con un documentario che fa emergere dal nero della cronaca italiana una, anzi più pagine, legate a una stagione di trasformazione del nostro paese. Dal dopoguerra agli anni ’60 Ezio Barbieri, Paolo Casaroli, Luciano Lutring, Pietro Cavallero – nomi forse dimenticati o a molti sconosciuti – hanno indelebilmente attraversato la penna di scrittori, giornalisti e sceneggiatori lasciando una macchia di inchiostro e sangue con i loro episodi di rapine e violente scorribande.
Ed eccoli ancora giovani salire sul palcoscenico, calarsi nella finzione, avvolti solo da un cono di luce che li colloca in uno spazio indefinito, atemporale; si raccontano davanti alla telecamera, confessando i motivi che li hanno spinti a diventare uomini della malavita, gli incontri con donne affascinanti e quella dolce vita che non si chiede ma si pre(te)nde, fatta di alberghi a cinque stelle, cappotti su misura e auto sportive.
La Storia si riversa sulla storia dei singoli protagonisti come un’onda in piena che porta a galla lo spirito rivoluzionario del periodo. De Maria si concentra su un lavoro di orchestrazione amalgamando fonti molteplici e di varia natura e creando una commistione di forme e suggestioni: immagini d’archivio, filmini super 8, dialoghi di libri ripresi dagli attori in scena (Francesco Sferrazza Papa, Sergio Romano, Aldo Ottobrino, Paolo Mazzarelli, quasi tutti volti nuovi e in grado di offrire un’interpretazione convincente) e una splendida selezione di polizieschi da registi come Petri, Lenzi, Di Leo, Bava, Bellocchio e Deray.
Non si tratta però di una semplice, e peraltro riuscita, operazione di montaggio. C’è in Italian Gangsters una precisa volontà di collocare i fatti nella realtà, di comprendere il fenomeno all’interno di un rapporto più ampio tra scelte individuali e contesti politici e sociali non apparenti. Il regista, da sempre interessato a queste tematiche (si guardi a Paz!, La prima linea e a parte della produzione da documentarista), tenta di spogliare i personaggi della loro aura mitica affidandosi a un’iconografia pop, facilmente riconoscibile e di impatto (Gastone Moschin in Milano calibro 9, per esempio), che finisce per confondere lo spettatore che rimane sospeso tra una narrazione autentica e uno stile goliardico e divertente.