Il permesso – 48 ore fuori, di Claudio Amendola

Amendola li ama appassionatamente, questi destini violenti, vorrebbe stare il più a lungo possibile in mezzo a loro, ma le fauci serrate dello script di De Cataldo e Jannone non glielo permettono

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Nella vicenda di Angelo, ragazzetto della Casilina finito in carcere per non rivelare il nome degli altri membri della sua gang di rapinatori improvvisati che lo hanno abbandonato nella fuga, e nel suo amore estemporaneo e impossibile con la rampolla dell’alta società, Rossana, in gabbia per un capriccio, c’è tutta l’anima profonda del mestiere del cinema di Claudio Amendola. Da Marco Risi al dimenticato ma bellissimo Fratella e Sorello di Sergio Citti, passando – perché no – anche dai Vanzina (quasi come fosse la versione nera di Amarsi un po’), nei frammenti de Il permesso dedicati alla linea narrativa dei due ragazzi ritrovi l’intero bagaglio d’immaginario di un corpo cruciale del nostro cinema di genere.

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E Amendola li ama appassionatamente, questi destini andati incontro alla violenza con la leggerezza dell’età dell’incoscienza, vorrebbe stare il più a lungo possibile in mezzo ai loro scherzi goliardici, le battute grevi, le discoteche e i panini allo zozzone, ma anche per quella sensibilità tenuta nascosta a tutti, quella che si apre solo davanti al romanticismo di un giardino di notte. Tanto da non aver resistito, stavolta, a dirigere se stesso anche davanti alla macchina da presa, e non a caso nel ruolo di un padre, un altro samurai dolente la cui leggenda lo precede e lo perseguita, che va incontro alla propria ombra per non passarla al figlio, impugnando le pistole che aveva nascosto ai piedi della statua bianca di una madonna da Killer (o da falchi?).
E’ un peccato allora che De Cataldo e Jannone esagerino stavolta decisamente nella scarnificazione delle vicende, e nell’economia della narrazione che diventa quasi un aspro serrare le fauci di scatto: una difesa condivisibile del lavorare in sottrazione in opposizione alle tendenze contemporanee di far esondare le storie oltre gli argini della forma chiusa. Il risultato però è quello di sembrare impegnati più che altro a settare un’atmosfera per poi calare dall’alto le rese dei conti in parallelo e in maniera forse più frettolosa che improvvisa: soprattutto, Amendola non sempre ha così il tempo per calibrare con lucidità

argentero_ilpermesso toni e respiro della messinscena, e le potenzialità di ambientazioni (tra cui un’inedita Pescara derelitta) e ruoli secondari (la moglie del personaggio di Amendola, la madre di Rossana e il suo autista, Ludmilla la ragazza del boss) appaiono in maniera intermittente, fatti salvi i due straordinari e impagabili cattivissimi, Antonino Iuorio e Ivan Franek il macellaio vegetariano fissato con le centrifughe.

Più di tutti ne fa le spese allora Luca Argentero, sempre più volto centrale di questa stagione del nostro cinema nero tra Placido e ancora Risi, legato a stilizzazioni polar più che d’oltreoceano: la parabola puntualmente rape and revenge del suo personaggio di ruggine e ossa è con ogni probabilità la più meccanica del lotto – Amendola è bravo a giocare con la fisicità muta, dai muscoli sempre tesi, dell’attore, ma la sua resurrezione sovrumana per trasformarsi in angelo della vendetta sembra provenire da un altro film, da un’altra epoca della memoria di riferimento. Dovrebbe avere la consistenza e la sensazione del sangue mischiato alla terra, di una purificazione tra le sterpaglie: finisce per assomigliare invece ad una sorta di nascita di Jeeg Robot senza i bidoni in fondo al Tevere.

Regia: Claudio Amendola
Interpreti: Claudio Amendola, Luca Argentero, Valentina Bellè, Giacomo Ferrara, Valentina Sperlì, Antonino Iuorio, Ivan Franek, Alessandra Roca, Massimo De Santis, Stefano Rabatti, Andrea Carpenzano, Gerry Mastrodomenico, Alice Pagani
Distribuzione: Eagle
Durata: 91′
Origine: Italia, 2017

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