#Locarno70 – Chien, di Samuel Benchetrit

Sotto gli stilemi del cinema scandinavo non si riesce a celare un intento programmatico che funziona per la capacità di generare il rifiuto. Nella sezione Piazza Grande

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È cosa nota quanto i francesi siano attaccati morbosamente al proprio stile ed alle loro tradizioni. Si resta quindi per prima cosa stupefatti quando Chien di Samuel Benchetrit si presenta in immagini e contenuti come un film scandinavo. Impossibile dopo una prima visione non pensare a un Kaurismaki o alla trilogia messa in scena da Roy Andersson parlando di morte ed idiosincrasie, come quella del protagonista di questo Chien, un uomo talmente passivo nei confronti della vita da trasformare la propria quotidianità in quella di un cane. Non ci si avvale di nessuna metamorfosi kafkiana, nè di un certo surrealismo poetico per dare una forma concreta al celebre modo di dire fare una vita da cane. Piuttosto si prendono i classici stilemi nordici, appunto, costruiti su un distacco programmatico da quello che viene filmato che di conseguenza provoca un’ironia nera ed indubbiamente divertente.

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Quello che genera riso nelle vicende di Chien è l’intrinseco fastidio che porta con se il protagonista. L’assurdità con cui rifiuta di reagire alle situazioni lo rendono un personaggio poco empatico e quindi facile bersaglio dell’ilarità del pubblico. Ovviamente se il film ha come colonna portante la passività dei nostri tempi, la stessa attitudine non è richiesta al pubblico a cui viene palesemente offerto l’invito alla riflessione. È proprio però questo mostrare apertamente la sottotraccia morale di tutta la vicenda a far tornare a galla le origini francesi del suo autore. Perché mentre i registi più vicini a questa comicità glaciale sanno nascondere molto bene le proprie intenzioni secondarie, Benchetrit

gif critica 2le mette in primo piano svelandone metafore e percorsi associativi la cui presenza poteva semplicemente essere intuita da uno sforzo intellettivo dello spettatore. Di questo processo si viene invece privati fin dai primi minuti quando l’ambiguità tra sottomissione animale da parte di un padrone e quella umana da parte delle relazioni interpersonali viene subito meno. Rimane però l’alone di fastidio che muta da essere quello provocato dal protagonista a quello della ripetizione degli eventi senza che ci sia un’evoluzione. In qualche modo questa mancanza trasversale di un atto provoca una reazione inconscia di chi guarda che può essere quella del rifiuto totale verso l’opera oppure di una presa di coscienza costruttiva. Si raggiunge quindi in un certo senso l’obbiettivo del regista (nonché autore del romanzo da cui è stato tratto il lungometraggio) che deve la riuscita di questo intento sopratutto alla performance attoriale di Vincent Macaigne, sempre credibile nelle molte sfumature di una vita da cane.

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