Molly’s Game, di Aaron Sorkin
Molly’s Game è l’ennesima straordinaria sceneggiatura di Sorkin che una regia ancora acerba non ha saputo rifunzionalizzare al meglio.
C’è momento particolare in questo frenetico film che spezza finalmente la prolungata apnea e ci fornisce una chiave di lettura importante per decodificare il gioco di Molly. L’abilissima organizzatrice di partite di poker milionarie è ora nell’ufficio del suo avvocato, attende notizie sul suo processo e pensa in silenzio; poi si alza lentamente, si avvicina ai vari tomi dei Codici Federali e ne sfiora le copertine tutte di un unico colore. Ossia un verde scuro e sicuro, proprio come i tanti dollari che maneggia e come quel tavolo da gioco da cui tutto si origina. Aaron Sorkin parte proprio da queste tre suggestioni forti: il gioco, il denaro e la legge vengono mescolati in precario equilibrio per far emergere l’anima americana tra sano individualismo e derive morali.
Aaron Sorkin , poi, fa il resto. La parabola della vera Molly Bloom – raccontata nell’autobiografia da cui il film è tratto – assomma tutte le ossessioni del grande sceneggiatore, sciorinate qui come un catalogo sfogliato a suon di stacchi di montaggio: dalla scalata sociale ai media che la trasformano in celebrità, dalle regole del legal thriller a quelle dello sport. Sorkin prende di petto e radicalizza questa nuova ondata di biopic adrenalinici (pensiamo al recente I, Tonia) che lui stesso ha inaugurato con The Social Network (2010), Moneyball (2011) o Steve Jobs (2015). Ma in ben 140 minuti il suo primo film da regista riesce rarissime volte a far guizzare sana umanità dalle “perfette” battute mitragliate a orologeria. E quindi: voice over invasiva, macchina da presa in perenne movimento, montaggio che cuce tutto come un metronomo… insomma un profluvio di scorsesismi anestetizzati dal tempo e dalle tante (re)visioni in un film sin troppo derivativo per essere un esordio così atteso. Sorkin si conferma uno degli sceneggiatori più influenti e abili su piazza, con uno stile e un’idea di narrazione talmente forte e strutturata che ha (paradossalmente) bisogno di registi altrettanto abili (come David Fincher o Bennett Miller, appunto) per far avvertire emozioni “reali” che scartino le sue ossessive “regole”. Molly’s Game è l’ennesima straordinaria sceneggiatura che una regia ancora acerba non ha saputo rifunzionalizzare al meglio.