Una donna sposata, di Jean-Luc Godard

Frainteso dalla critica alla sua uscita, dopo quasi 60 anni è un ritratto profetico sulla disumanizzazione di una società protesa verso l’immagine superficiale e incapace di memoria storica.

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“Questo film è una specie di “depliant” sulla donna. (…) Io non invento niente, compilo dei prospetti. Dico: ecco come si compone una donna e la mostro in  “pezzi staccati”. Una macchina elettronica avrebbe potuto benissimo registrare questi diversi elementi e fornire la sua risposta, cioè la sua sceneggiatura costruita secondo una certa logica, come ho fatto io. Ho lavorato da etnologo: come Lévi-Strauss avrebbe potuto dar l’idea della donna in una società primitiva del Borneo, così io ho cercato di dare l’idea della donna in una società primitiva come quella del 1964”. (Jean Luc Godard)

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Una frase ripetuta più volte comincia a perdere il significato. Una immagine riprodotta e serializzata va perdendo senso ad ogni rappresentazione. Una donna sposata riprende il discorso di Questa è la mia vita approfondendo l’aspetto antropologico: il ruolo della donna nella società dei primi anni 60.

Charlotte (Macha Méril) è una donna sposata che si divide tra gli incontri amorosi con il marito Pierre (Philippe Leroy) pilota di aereo e l’amante Robert  attore teatrale (Bernard Noël). Quando rimane incinta, continua a vivere la sua vita senza scegliere. Se Nanà lottava per la sua sopravvivenza in un percorso quasi cristologico filosofeggiando sulla ricerca di identità, Charlotte è una figura monodimensionale che è il prodotto della società dei consumi. Una donna senza qualità influenzata dalla pubblicità, dai vestiti da indossare, dalla biancheria intima più seducente, dal proprio corpo (il seno, la schiena, le gambe, le mani, gli occhi, la bocca, ritagliati come da una rivista patinata e incollati in un puzzle senza anima). Una donna che rifiuta il passato e la memoria per abbandonarsi a un presente senza prospettive, dove tutto si risolve nell’attimo senza pensarci, dove si passa di taxi in taxi per sfuggire ai detective privati.

La fotografia di Raoul Coultard, già apprezzata in Questa è la mia vita, qui accentua i contrasti tra il nero e il bianco, donando ai corpi un agghiacciante impressione cadaverica: Macha Méril appare ancora più piccola e anemica sovrastata dalla gigantografia di una pubblicità di lingerie. I quartetti di Beethoven accentuano questa distanza funerea, questo rigore etnologico che mantiene lo spettatore a una distanza di sicurezza dalle inquadrature. Anche l’uso del negativo per la scena in piscina trasmette questo senso di morte del reale. Il risultato finale è quello di un disagio misto a tristezza: non è un caso che mentre scorrono le fotografie e i titoli delle riviste di moda, sentiamo Sylvie Vartan cantare “Quand le film est triste”. Noi siamo quello che compriamo. Per quanto ci laviamo le mani con il sapone, le abbiamo sempre sporche.

Jean-Luc Godard preconizza una società smemorata, che perde le proprie radici confondendo Auschwitz con la Talidomide, banalizzando la visione di un film come Notte e nebbia di Resnais, riducendolo a una occasione per un rendez-vous tra amanti. Le citazioni letterarie si disperdono nella incomprensione e nella vacuità: la discussione su Molière sulla forza purificatrice del teatro, i processi ai nazisti, le gigantografie di Marlene Dietrich e Alfred Hitchcock, i disegni di Jean Cocteau, la bella rossa di Apollinaire, Berenice di Racine, il lavoro di Louis Jouvet e Charles Doullin, persino Morte a credito di Céline.

Tutto perde di consistenza di fronte alla depilazione delle gambe, al modello più sexy di mutande, al busto per tenere la posizione eretta ed aumentare le dimensioni del seno, alla visita sacra ai grandi magazzini Printemps, ai dischi con registrate solo risate, alla cameriera Céline che riduce il sesso a pulsione animalesca.

Quando il film usci è stato completamente frainteso dalla critica che ha accusato Godard di misoginia e di didascalismo. Ma dopo quasi sessant’anni Una donna sposata è un ritratto profetico sulla disumanizzazione di una società  tutta protesa verso l’immagine superficiale e incapace di memoria storica. L’intervento chiarificatore è quello del regista Roger Leenhardt (uno dei padri della Nouvelle Vague) sulla intelligenza: bisogna sempre prima capire e informarsi e dopo esprimere un giudizio. L’aneddoto dell’amico che nel 1940 volle rendersi conto di cosa succedeva a Vichy è esemplificativo. Più che di “nouvelle vague” Godard ci parla di “nouvelle vogue”, della nuova ossessione di essere alla moda.

Di corsa all’ultimo modello di reggiseno, di monokini/bikini, di televisore, di macchina, di aereo. Perse le coordinate morali di Nanà, la borghese Charlotte va dal ginecologo come se andasse dal salumiere, vuole sapere la differenza tra piacere e amore per ricevere la ricetta di buoni consigli e cattivo esempio. Il figlio Nicolas scompare in un decalogo di imposizioni che riflette l’ipocrisia del mondo degli adulti. Allora ancora parole, parole, parole ripetute fino allo stordimento. Parole che sembrano solo frasi recitate, parole che perdono tutto il loro valore in una commedia di nessuna arte, parole che non dubitano mai di sé stesse. Robert continua a recitare un amore inesistente. Charlotte fa finta di non accorgersene perché non ha alternative. “Ti amo, ti amo, ti amo” finché il suono vacuo della frase si scontra con la parola “si, è finita”.

Titolo originale: Une femme mariée
Regia: Jean-Luc Godard
Interpreti: Bernard Noël, Macha Méril, Philippe Leroy, Christophe Bourseiller, Roger Leenhardt
Distribuzione: Movies Inspired
Durata: 95′
Origine: Francia, 1964

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
3.5 (4 voti)

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