A Night of Knowing Nothing, di Payal Kapadia

La politica, il privato, le possibilità del cinema nella lotta reale, nella lotta con il reale. L’esordio di Payal Kapadia è un film complesso e denso. In Quinzaine des réalisateurs a #Cannes2021

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Da qualche parte, al Film and Television Institute of India, viene ritrovata una scatola di latta, con dentro ritagli di giornale, disegni, cartoline. Ma soprattutto una serie di lettere scritte da L., una studentessa dell’istituto, per K., il ragazzo di cui è innamorata. Un amore impossibile, per questioni di differenza di casta. La famiglia di lui si è opposta alla relazione e i due ragazzi si sono dovuti separare, irrimediabilmente. Ecco la flebile traccia narrativa da cui parte il primo film di Payal Kapadia e che proietta, sin dai primi istanti, l’ombra di un rimpianto, di un vagheggiamento, una sensazione di perdita. Ma è anche l’intuizione che vale a saldare il discorso privato con questioni politiche e sociali più grandi. Perché A Night of Knowing Nothing diviene ben presto il racconto delle proteste studentesche che hanno infiammato l’India negli ultimi anni, dopo la salita al potere di Narendra Modi e del BJP, il partito nazionalista indù. Proteste che riguardano l’accesso all’istruzione e la libertà d’espressione, le infinite chiusure della società indiana, con tutte le discriminazioni religiose, castali, economiche, a scapito, oggi più che mai, dei Dalit, gli “intoccabili”, e i musulmani. Ma ancora altra questione è quella della prospettiva particolare di chi studia e fa cinema, all’interno di una lotta collettiva. E quindi, la responsabilità dell’immagine nella trasmissione delle informazioni e delle conoscenze, nella costruzione della memoria, il problema del come filmare e cosa filmare, con che linguaggio, a chi rivolgersi.

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Payal Kapadia porta avanti tutte queste tracce, inevitabilmente legate. Perché, come ricorda a un certo punto una delle lettere di L., vita, cinema, amore sono “una cosa sola”. E per questo, il film è costruito su un’eterogeneità di materiali: le riprese della regista che si mescolano all’archivio, quello “verticale” del repertorio cinematografico e televisivo più istituzionale, e quello “orizzontale” delle immagini girate da altri studenti e raccolte come in un lavoro collettivo da cinema militante di altri tempi. Immagini molto spesso rubate, tra assemblee, manifestazioni, scontri. Che settano i parametri di una visione a bassa frequenza, quella di un bianco e nero sgranato, buio, quasi in evaporazione, inscritto in formati dissonanti. L’occhio rischia di perdersi nella notte, proprio come la memoria, che “non può superare la prova di 2000 anni”, e finisce quindi per farsi dominio della narrazione del potere. “Quelli che la controllano la chiamano «storia»”. Ma proprio per questo è necessaria un’altra narrazione, seppur problematica, abbozzata, esplosa in parole, riflessioni, testi, segni, che sono comunque tentativi di aprire strade concrete, incisioni sul corpo della realtà.

Il film si muove tra le densità e l’evanescenza, tra il furore e la stanchezza. Payal Kapadia mostra l’afflato della passione, ma è consapevole di quanto i suoi mezzi possano mancare di definizione. Di quanto ogni immagine, soprattutto, possa mancare il presente. Per non parlare del futuro. E perciò, mentre si addentra nella mischia, si interroga sul senso delle pratiche che mette in campo e sulle possibilità del cinema nella lotta reale, in lotta con il reale. Cita Godard, Kurosawa, chiama in causa Pasolini che prendeva le difese dei poliziotti durante le contestazioni studentesche del ’68. Rischia, in tutta questa materia ribollente, di andare incontro alla confusione. Ma, in verità, il suo film parla di coerenza (L. accusa K. di contraddizioni, protesta contro il governo, ma si piega silenziosamente al volere della famiglia). Etica ed estetica. E quindi tutto finisce per concentrarsi, per non perdere la traiettoria. Così alla violenza, alle repressioni sanguinose della polizia, non viene lasciato troppo spazio. Se non sul finale, nell’intensa ripresa di una telecamera a circuito chiuso che viene, però, interrotta proprio sul vivo. Non serve diffondere la paura, come conclude un ragazzo vittima di torture. Anzi… bisogna stare dalla parte della vita. Muoversi. Ballare ancora.

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