ADDIO A JOHN G. AVILDSEN: Rocky (1976)

Ricordiamo John G. Avildsen, scomparso ieri a 81 anni per tumore al pancreas. Oscar nel 1977 per Rocky, aveva diretto anche il quinto capitolo, Karate Kid, e I vicini di casa con Belushi/Aykroyd

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Ricordiamo John G. Avildsen, scomparso ieri a 81 anni per un tumore al pancreas. Premio Oscar nel 1977 per Rocky, aveva diretto anche il quinto capitolo della saga, la trilogia di Karate Kid, e I vicini di casa con John Belushi e Dan Aykroyd. La nostra recensione del primo capitolo della mitologia stalloniana:

 

 

Quel personaggio mi manca sempre, tantissimo, ogni giorno. Credetemi a volte mi viene da piangere. Perché non avrò mai più un’opportunità come quella, una voce che possa dire tutto quello che sento nel cuore. Questo è l’aspetto che mi sarà sempre caro di quel personaggio. Forse non mi crederete, ma… quando Rocky diceva una cosa era la verità.” Sylvester Stallone

Rocky Balboa dice sempre la verità. Come un amico vero-e-immaginario, nato dalle difficoltà economiche di un giovane attore e dai sogni fanciulli che l’hanno tenuto in piedi. Cresciuto in fretta sulle pagine di una sceneggiatura che nessuno voleva produrre, sino a quando l’intuito del mitico duo Chartoff e Winkler la farà arrivare alle statuette degli Oscar. Addirittura. Inizia così la favola hollywoodiana di Sylvester Stallone, nel 1976, in contemporanea a quella di Rocky: la leggenda narra poi del rifiuto di fior di quattrini pur di interpretare lui stesso quel personaggio. Del resto nessun altro poteva farlo… erano troppo amici Sly e Rocky! Inizia sulle strade di Philadelphia l’epopea di Balboa, nella periferia degli strozzini e sui ring scalcinati, tra sangue e religione, con un cappello da bullo in testa e una pallina di gomma per passare il tempo. L’occhio di John G. Avildsen (il regista designato per dirigere il primo match stalloniano) è chiaramente intriso del tempo New Hollywood – si va dal John Huston di Fat City al Bob Rafelson di Stay Hungry – colto negli umori di personaggi sempre al limite e nelle immagini che provvisoriamente cercano di inquadrarli (lo stesso Stallone dirà che la prima stesura della sua sceneggiatura era molto più cupa e con un finale tragico, in pieno stile da anti-eroe schraderiano in voga nei ‘70).

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Ma c’è qualcosa che improvvisamente sfugge a quella contingenza, uno scarto estetico evidente che arriva nella scena forse più famosa, salendo la celeberrima scalinata di Philadelphia: Rocky al massimo del suo sforzo alza le braccia in rallenti e sposta letteralmente il film “indietro” nel tempo (nella Hollywood classica dove ci si identificava con i semplici sogni di bambino) gettandolo paradossalmente in “avanti” (gli anni ’80 dei training postmoderni, dove sarà lo stesso Stallone a traghettare la saga verso un’estetica muscolare e sovrabbondante “spiezzando” in due il decennio).

1adrianaRocky Balboa continua a dire la verità. Si muove nell’inquadratura come un claudicante bisonte, il contrario di ogni pugile-farfalla alla Mohamed Alì (e ricordiamo che la scintilla per scrivere questa storia è stata proprio il famoso mach di Alì con lo sconosciuto Chuck Wepner che lo mise al tappeto), facendo nascere così un nuovo immaginario riconoscibile e inconfondibile. Una scheggia impazzita di irripetibile calore umano calata in un racconto archetipico che allarga il campo al più classico viaggio dell’eroe. Stallone e Avildsen erigono con miracolosa naturalezza un “mondo intero” con i suoi tempi lenti e i suoi riti popolari, le sue certezze granitiche e i suoi conflitti universali, trasformando la colonna sonora di Bill Conti nell’inno di un’intera generazione che lotta per i propri sogni. I cazzotti dati ai quarti di bue e la tuta rammendata, le infantili gelosie di Paulie e le bonarie rudezze di Mickey, le dolcissime timidezze di Adriana e gli show perenni di Apollo… è un fiume in piena di umanità questo film! Al di là della storia e di ogni mitologia sportiva, sono proprio questi momenti di piccola intimità che attraversano lo schermo e rimangono tatuati negli occhi dello spettatore come affetti indelebili. Immagini che ti accompagnano nell’intera vita e che ritornano al momento giusto, quando ne hai più bisogno, come le sequenze dell’impacciato avvicinamento verso Adriana… che dire? Tra le naissance de l’amour più belle, struggenti e sincere della storia del cinema.

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Rocky Balboa, in questo momento, ci sta ancora dicendo la verità. Ha la sua occasione e sale sul ring, affronta la sconfitta sicura perché sa di avere un unico obiettivo: rimanere in piedi sino al 15º round della vita, per dimostrare a se stesso di non essere un perdente come pugile (o come attore) e per dimostrare a Mickie di non essere un figlio perduto (o un racconta-storie fallito). Ben oltre il film (e ben oltre ogni superfluo “giudizio critico”) rimane oggi lo sguardo di Rocky/Stallone sul mondo e sulle cose: cristallino, elementare, mai di secondo grado, diretto come un pugno in faccia o una carezza improvvisa. È il cinema che (ri)scopri amico vero, anche dopo decenni dall’ultima visione, anche dopo aver conosciuto o amato migliaia di altri film. Ed è questo che manca tanto anche a noi, caro Sly, in molto cinema odierno: manca lo sguardo complice, fragile e fanciullo di un cinema-amico che abbattendo ogni filtro formale o razionale ci racconti solamente e semplicemente la sublime verità su se stesso. In ogni singola inquadratura.

Ringrazio il mio amico immaginario Rocky Balboa, il miglior amico che ho mai avuto” (Sylvester Stallone, 10 gennaio 2016, ritirando il Golden Globe per Creed).

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