Al cinema italiano mancano personaggi femminili forti. Intervista a Barbara Petronio

Abbiamo intervistato la sceneggiatrice di Indivisibili e Suburra – La serie a proposito dei David 2020, della carenza di personaggi femminili forti, della sua professione e delle tutele che mancano

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Dopo un’edizione dei David di Donatello piena di voci maschili (il presentatore Carlo Conti, il doppiatore Roberto Pedicini fuori campo, e la maggioranza dei premiati) e senza spazio per sceneggiatori, montatori e altre figure professionali abbiamo intervistato la sceneggiatrice Barbara Petronio (ACAB, Indivisibili, Suburra – La serie) a proposito della premiazione, della carenza di personaggi femminili forti, della professione di sceneggiatrice e delle tutele che mancano.

Come ti è sembrata la premiazione di quest’anno, che ha garantito diritto di parola solo ad attori, registi e qualche produttore?
Le evidenti limitazioni di quest’anno sono state in alcuni casi anche un vantaggio, soprattutto per accorciare i tempi e per il fatto di evitare il solito cerimoniale. Vedere le case dei premiati ha dato un tocco di novità, evitare il red carpet e uno show che non siamo mai riusciti a fare al livello degli americani, per me ha migliorato la situazione. Certo non mi è piaciuta la scelta di non collegarsi coi vincitori di tante categorie considerate “minori”. Un enorme controsenso rispetto allo spot sui ruoli “dietro le quinte” del cinema. Almeno mostrare la foto, dare un volto a chi ha vinto andava fatto, se proprio non si poteva fare il collegamento da casa.

Secondo te i David riflettono semplicemente una società maschilista? Dovremmo contare sulle scelte della giuria per avere segnali di evoluzione?
Non so se i David riflettano una società maschilista ma sicuramente riflettono una situazione del cinema italiano dal punto di vista creativo e produttivo per nulla confortante. Non c’era quest’anno una donna considerata nel suo talento, se non al servizio dell’autore di turno, non c’era candidata una sola regista e ahimè i ruoli femminili, sia protagoniste che non protagoniste, avevano un’incidenza nella storia dei film del tutto secondaria. L’annata dimostra nei fatti una scarsissima presenza di talenti femminili. Io da sempre considero il talento svincolato dal genere, detesto le cosiddette quote rosa ma non posso non notare come in Italia la presenza maschile sia ormai preponderante, a senso unico. Ho le mie risposte a questo fenomeno e credo che passi molto per delle differenze, queste sì, di genere. In Italia veniamo da anni di cinema “d’autore”, impegnato o completamente autoriferito, dal quale sono usciti grandissimi talenti e grandissimi film. Ma questo non può sostenere da solo l’industria cinematografica. È un sistema produttivo dove si pone al centro del processo creativo una figura carismatica, solitamente il regista, attribuendogli un potere pressoché assoluto (a volte negli ultimi anni anche a fronte di incassi esigui). Questo sistema difficilmente trova una figura femminile a cui attribuire tale centralità, perché le donne tendenzialmente esercitano il potere in modo diverso, meno plateale e anche, purtroppo, meno convinto. Aver completamente escluso il cinema di genere, non partire mai dalla storia nello scegliere un film in favore spesso del “prossimo film” dei singoli autori, penalizza il talento in generale e quello femminile ne sconta maggiormente le conseguenze, non riuscendo ad emergere e a trovare uno spazio.

Nella tua esperienza trovi che film che da sceneggiatura prevedono una donna come protagonista abbiano meno possibilità di venire realizzati?
Non credo che abbiano meno possibilità ma, peggio, che non arrivino neanche sui tavoli di chi decide quali film fare. Prima ci sono gli autori da produrre, a prescindere dalla storia che abbiano da raccontare. Spesso in queste storie non ci sono donne, o se ci sono, fanno da spalla al protagonista maschile. E ultimamente anche gli attori forti al botteghino sono più uomini che donne, o almeno così si pensa. Questa annata dal punto di vista della presenza femminile è stata catastrofica, ma è una tendenza oramai consolidata, tranne qualche raro picco in cui gli autori maschi decidono di raccontare personaggi femminili. In quel caso per esempio accade una cosa molto emblematica, si chiede alla sceneggiatrice di dare un contributo sui personaggi femminili, poi in realtà la sceneggiatrice lavora su tutto il film, non solo sui personaggi femminili, ma nell’immaginario rimane quella che si è inventata dei bei dialoghi per donne.

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Il fatto che sia stato premiato Bangla, diretto dall’esordiente di seconda generazione Phaim Bhuyan, è un bell’elemento di novità, non trovi?
Non lo trovo il miglior film d’esordio di quest’anno. Nella categoria esordienti a mio parere c’erano film più solidi soprattutto per scrittura e regia. Non l’ho votato ma non mi stupisce che abbia vinto.

Cerchiamo di essere propositive: quale potrebbe essere la scaletta dei David dell’anno prossimo?
Donne in tutte le categorie, film con personaggi femminili forti, e soprattutto storie belle e avvincenti, narrate per il gusto di intrattenere il pubblico… ops, mi sa che sono stata fin troppo ottimista. Intanto speriamo che i cinema possano riaprire e che ci sia ancora un pubblico disposto a entrarci.

Quali tutele avete come sceneggiatori ora che con la pandemia il settore è fermo?
Gli sceneggiatori sono partite iva, quindi non hanno tutele, né ammortizzatori sociali. Devo dire che per quanto colpiti come tutti da questa emergenza, abbiamo la possibilità di lavorare da casa e quindi in questo periodo molti di noi sono stati impegnati nella scrittura di nuovi progetti che, spero presto, vedranno la luce.

Stai lavorando a qualche nuovo progetto, o lo stavi già facendo?
Sono quasi da due anni il “capo” (termine maschile che mi prendo fiera) dei contenuti tv della Lotus Production. Stiamo lavorando a molte serie che piano piano si avviano alla fase pre-produttiva. Io in particolare ho due progetti a cui tengo molto. Uno è una storia con due protagoniste femminili diverse e affascinanti e lo stiamo co sviluppando con Caryn Mandabach Productions (Peaky Blinders). Caryn è una produttrice americana che si è trasferita in Inghilterra, una donna di grande energia e spessore, che ha avuto conoscermi dopo aver visto Suburra. Mi ha fatto leggere un articolo di giornale perché voleva farne una serie. Ci siamo trovate subito e abbiamo iniziato a lavorare, rispettando ognuna i propri ruoli. La prima volta che ci siamo viste per parlare di questo progetto, di cui purtroppo al momento non posso dire niente, mi ha detto una frase che spesso mi risuona nella testa: “Quando una madre cambia anche solo una piccola cosa nell’educazione dei suoi figli, allora il mondo cambia”. Credo che questo sintetizzi bene cosa è, cosa fa e quale potere eserciti una donna nel mondo.
L’altro progetto è una storia per ragazzi, piena di effetti speciali e di sorprese, un genere credo mai frequentato in Italia. Spero di poterla sviluppare al meglio e di trovare la forza per crederci fino in fondo. Per il cinema ho scritto un thriller paranormale che probabilmente finirà venduto a qualche produttore inglese o americano e riadattato, in Italia al terzo “no” ho desistito. Mi sono demoralizzata a sentire che il thriller in Italia non va… E pensare che volevo farne la regia! Kathryn Bigelow, regista che amo e che ho studiato tanto da farci la mia tesi di laurea, fece fra i suoi primi film un western sui vampiri… ma qui, ahimè, Kathryn non è un modello che si possa pensare di seguire.

Quali sono le tipologie di contratto previste per gli sceneggiatori?
Contratti a progetto, nella maggior parte dei casi senza garanzie di sviluppo. Sono i cosiddetti contratti a step, possono durare anni a seconda della velocità del percorso di vita del progetto.

Ad oggi ci sono diverse associazioni di sceneggiatori. Non sarebbe auspicabile arrivare ad un’unità e magari ad un coordinamento dei lavoratori del cinema?
Senza dubbio auspico che le associazioni di scrittori si uniscano e difendano il lavoro della scrittura, da cui, non dimentichiamolo, nasce il film o la serie che sia.

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