An Unfinished Film, di Lou Ye

Lou Ye rievoca i giorni del lockdown cinese attraverso un ibrido di mockumentary, video del web dall’epoca Covid e, come Jia, frammenti scartati dai suoi vecchi film. CANNES 77 – Séances Spéciales

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Per rievocare l’epoca pandemica, e parliamo davvero di pochi anni fa quando lockdown, mascherine e distanziamento sociale erano parte del nostro quotidiano, sia Jia Zhang-ke che Lou Ye hanno bisogno di ritornare indietro nel tempo fino ad immagini provenienti dal loro repertorio di vent’anni prima: lo fa Jia nel suo sublime Caught by the Tides, e anche Lou Ye, un altro regista cinese di “sesta generazione”, inserisce all’intero di questo An Unfinished Film frammenti tratti dalle riprese non utilizzate di sue hit precedenti come Spring Fever o The Shadow Play.
È come se, per risvegliare nello spettatore i ricordi del tempo del Covid, fosse necessario per forza attivare un circuito della memoria, tornare ancora più indietro per poter inquadrare nella prospettiva corretta i giorni che abbiamo vissuto in quarantena non tanto tempo fa: è uno dei sintomi chiari della gigantesca rimozione in corso ad ogni livello, da quello intimo a quello della comunicazione pubblica, dei segni di questa nostra recente esperienza pandemica – dalla iper-produzione dei videodiari di lockdown girati da cineasti di tutto il mondo praticamente “in diretta”, siamo passati così ad eco lontane di quella che sembra essere stata solo una grande allucinazione collettiva.

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Ben venga dunque An Unfinished Film, con cui un cineasta sicuramente diseguale come Lou Ye riesce a riportarci totalmente nella sensazione vissuta durante i mesi di confinamento, attraverso l’arma del mockumentary ibrido: un regista riconvoca la troupe di un film mai finito anni e anni fa, tra cui l’attore protagonista che nel frattempo è diventato una star (Qin Hao). Proprio mentre il gruppo di filmmaker sta lavorando alle riprese per terminale l’opera incompiuta, da Wuhan si inizia a propagare la pandemia – ed ecco che tutti rimangono intrappolati nelle loro camere d’albergo, impossibilitati anche ad uscire nel corridoio per incrociarsi, neppure nella notte in cui si festeggia il capodanno cinese del 2020.
Attraverso questo espediente, Lou Ye ci restituisce tutta quella sospensione tra le mura di casa che abbiamo sperimentato in quei mesi, dalle camere da letto sempre più ammassate e disordinate fino alle videochiamate di gruppo, la paura del contagio, le giornate tutte uguali: per farlo, il film alterna la vicenda dei suoi personaggi con il recupero di footage spurio tratto dai social e dal web, con cui anonimi utenti hanno raccontato le fasi della Cina sotto Covid – dalla sanificazione delle strade di Wuhan al personale sanitario in tenuta protettiva che balla con i pazienti in ospedale, dalle proteste in strada per il ritorno del lockdown ai primi video con cui si testimoniavano le riaperture, il ritorno all’aria aperta, la città che si ripopola, i clacson delle macchine che suonano all’unisono per ricordare le vittime del virus.
È vero, soprattutto in queste sezioni di montaggio strappalacrime di clip da internet il film (girato da un autore che in passato ha più volte avuto problemi con la censura cinese) porta con sé un eccesso di orgoglio nazionale sul popolo-che-ha-battuto-la-minaccia-invisibile, ma per il resto si tratta di un esperimento animato da un sentimento genuino di empatia, compassione umana, calore familiare e comunitario.

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La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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