Asian Film Festival 2007 – "Young Yakuza", di Jean-Pierre Limosin

il boss del clan kumagaiLa Yakuza vuole rinnovare la propria immagine, e il documentario si fa portatore di questa evidente operazione di restyling: la ripresa del lato umano della vita quotidiana di un gangster giapponese dimostra chiaramente il disperato bisogno dei boss di giovani da arruolare, perché la vita criminosa pare non attirare più come un tempo le nuove generazioni

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il boss del clan kumagaiNel 1999 Jean-Pierre Limosin realizza per la serie di videoretrospettive su registi contemporanei Cinéma, de notre temps l’incontro con Takeshi Kitano, l’imprévisible – quasi dieci anni dopo il regista francese penetra nel mondo degli spietati yakuza di Tokyo che proprio il geniale autore di Sonatine ha contribuito ad innalzare a mito ed epica dei nostri tempi globalizzati, per realizzare questo documentario sui retroscena della vita quotidiana di un gangster giapponese: eppure la sensazione guardando questo Young Yakuza è che il vero documentario su usi, costumi e rituali dei perfidi boss vestiti di nero resti davvero Brother, a firma proprio di Kitano: “un tempo si usava tagliare via un dito per un sospetto tradimento, adesso non si fanno più queste cose”, dice infatti dopo pochi minuti di documentario il boss del clan Kumagai, assoluto protagonista della pellicola, tutto intento nei suoi dialoghi con la mdp a mostrare il lato umano dietro la macchina di morte della sua associazione criminale – il boss ha infatti disperato bisogno di giovani da arruolare tra le sue fila, perché la vita criminosa pare non attirare più come un tempo le nuove generazioni di giapponesi: la Yakuza deve sostanzialmente rinnovare la propria immagine, e il documentario si fa portatore di questa chiara ed evidente operazione di restyling, per cui il boss si dimostra calmo e comprensivo anche con gli scapestrati che osano disubbidirgli, e la vita dei ‘soldati semplici’ non sembra poi così diversa dal lavorare in un’azienda ben avviata, addetti ai compiti più gravosi come spazzare per terra e portare da bere e da mangiare al capo. Il lavoro di Limosin sembra assumere allora una doppia valenza demistificatoria: da un lato, mette in scena gli yakuza come un gruppo tranquillo di amici che organizzano il barbecue sulla spiaggia, cercano per ore intere gli occhiali di uno di loro caduti in acqua, adorano guardare film di yakuza a cui ispirarsi; dall’altro versante, sottolinea in ogni occasione possibile la fallacità del documentario stesso, lasciando nel montaggio finale gli accorgimenti con gli ‘attori’ per le sequenze chiaramente ricostruite, e i frequenti dialoghi che si riferiscono esplicitamente al fatto che il tutto stia essendo ripreso (fino al finale smaccatamente fiction in cui Limosin dimostra i limiti della sua messinscena risolvendo la sparizione di un personaggio del film che per un attimo aveva acceso i nostri sguardi). Nei momenti in cui funziona (soprattutto gli attimi dedicati al clan che si stringe attorno alla donna del gangster finito in carcere mentre si prepara per andare a visitarlo), il risultato è di una tenerezza a tratti sconfortante (i lunghi monologhi del riflessivo boss sul suo ‘ruolo di padre’, sulla linea decisa da seguire con i giovani, mentre passeggia sul lungomare…), ma molto spesso il film dimostra uno sguardo fin troppo spento sul ‘reale’ per poter davvero emozionare – e nella bella sequenza con gli yakuza sotto le docce dello spogliatoio, con la mdp che indugia sugli innumerevoli e variopinti tatuaggi che campeggiano sui loro corpi, senti pesantissima la mancanza di uno sguardo come quello di Jia Zhang-Ke…Resta il bel ritratto di una generazione di ventenni giapponesi alle prese con un vuoto di ideali, occupazioni e aspirazioni talmente grande da annoiarsi sostanzialmente anche a fare i gangster, la cui frustrazione per “Tokyo, città di me**da” trova sfogo unicamente nei bei rap in giapponese che si possono ascoltare in colonna sonora.

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