Autohystoria. Il cinema di Raya Martin

Un estratto da Autohystoria. Visioni postcoloniali del nuovo cinema filippino in occasione della serata, con presentazione del libro e proiezione a seguire, del 26 gennaio da Sentieri Selvaggi

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Pubblichiamo un estratto da Autohystoria. Visioni postcoloniali del nuovo cinema filippino di Renato Loriga 

Il cinema di Raya Martin è il più programmatico tra quelli del nuovo cinema filippino. Il più consapevole, sicuramente, delle dinamiche geopolitiche del cinema. Tanto in patria quanto all’estero, Martin ha saputo mantenere un coerente discorso politico e metodologico, riuscendo allo stesso tempo a modificare la forma e lo stile dei suoi film pressoché a ogni prova. Il mio compito non è stato quello di rintracciare in essi le tracce di un discorso postcoloniale, perché esse sono ben visibili e dichiarate dallo stesso regista. Piuttosto, ho cercato di capire come esse funzionino, con quali tecniche cinematografiche esse siano veicolate, quali discorsi mettano in circolo e in che modo. Nella forma stessa che soggiace a tutta l’operazione artistica di Martin, estesa quindi anche ai suoi lavori di performance e videoinstallazione, ritroviamo la convinzione di altrettanti studiosi e pensatori filippini circa la sostanziale apertura della questione postcoloniale filippina: essa può essere impostata solo in forma interrogativa, aperta.

Nell’eterogeneità del nuovo cinema filippino troviamo la voglia e l’energia di raccontare una nazione così stratificata e complessa come quella delle Filippine, in un gesto di libertà artistica posto ai margini del mercato nazionale, perché ad esso contraria. Le visioni postcoloniali di questi registi si oppongono diametralmente a un cinema mainstream e al suo corrispettivo indipendente, che nella maggior parte dei casi si rifugia in prodotti di stampo commerciale o rispondenti a logiche artistico-festivaliere normative, in grado di restituire solo un immaginario stereotipo e non in grado di render conto della pluralità di voci che vanno a comporre l’arcipelago. In ognuno dei registi, ma nel lavoro di Martin in particolare, abbiamo riscontrato la tendenza a porre sullo stesso piano l’esperienza personale e l’identità filippina collettiva, realizzando così un ritratto complesso ma non per questo impossibile da districare.
Nel caso delle Filippine questo divenire non si limita mai alla duplicità, ma si allarga a numerosi altri strati. È vero allora, forse, che un paradigma postcoloniale di per sé non sia del tutto sufficiente a rendere conto della complessità culturale filippina, come molti autori nativi hanno dichiarato. Ma seppur limitate, le nostre riflessioni hanno comunque cercato nondimeno di raccogliere in maniera organica queste numerose voci, e a dare loro un contesto comune, per poi lasciarle libere di proseguire nelle diverse direzioni verso cui sono protratte. Rimane insomma un processo aperto, parallelo in questo al lavoro cinematografico da noi analizzato: una costante interrogazione le cui risposte non sono tanto nei risultati quanto nel metodo stesso. Nelle parole dello stesso Raya Martin:

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Faccio film per me stesso. Quando comprendi chi sei, la gente capisce. È come un linguaggio. Non cinema come linguaggio, ma in senso classico, una forma d’essere. Amo fare certi film perché dopo capisco certe domande nella mia testa, non attraverso il film ma attraverso il suo processo. Perché a volte mi sento bianco quando non lo sono? Perché parlo sempre di storia nei miei lavori? Che senso ha fare film? È diverso per ognuno, ma questo processo con me funziona, ed ottengo risposte facendo questo cinema (Bradshaw, 2014).

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Si è cercato, insomma, di cogliere il formularsi di tali domande nel percorso del loro divenire molteplice, nell’atto di tramutarsi da teoria a pratica in forma di immagini in movimento. Da un lato, per dare voce a un cinema che, al di là del dibattito critico festivaliero, spesso sterile, non trova spazio in ambito accademico, soppiantato da una geografia immaginaria che vede nel cinema occidentale il fulcro di qualsiasi teoria e relega nelle periferie tutto il resto (sempre che ne ammetta l’esistenza). Dall’altro, perché riaffermare come i lasciti del colonialismo siano ancora radicati nel presente è un gesto critico fondamentale nel momento in cui si presuppone che il cinema, in quanto medium, contribuisca alla costruzione della nostra realtà contemporanea e quotidiana, e solo rimettendo in discussione le questioni da esso sollevate se ne potranno vedere gli effetti materiali.

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