BERLINALE 63 – “Interior. Leather Bar”, di James Franco e Travis Mathews (Panorama)
E' chiara l'operazione di Franco: il vero omaggio a Cruising non è nei paralipomeni che comunque restituiscono appieno stilisticamente la nervosa frenesia e il grosso senso mortifero che già innervavano l'originale friedkiniano, quanto nella vicenda umana e intima dell'attore Val, che compie la stessa parabola del personaggio di Pacino che sprofonda progressivamente nelle tenebre del sadomasochismo borchiato
E' il la per un monologo di James sulla libertà dell'artista e sulla battaglia estetica per una ricerca che non sia in alcun modo viziata dai condizionamenti morali e comportamentali di educazione e società: e allora Val, dopo aver assistito dal vivo nonostante la persistente confusione alle riprese della seconda sequenza porno che gli autori gettano in faccia con violenza agli spettatori, questa volta con in scena un'unica coppia gay, la sera dopo la giornata sul set si aggira in macchina nella zona dei leather bars e dei locali per omosessuali, perversamente affascinato dal mondo oscuro appena scoperto.
E' chiara dunque l'operazione di Franco: il vero omaggio a Cruising non è nei paralipomeni che comunque restituiscono appieno stilisticamente la nervosa frenesia e il grosso senso mortifero che già innervavano l'originale friedkiniano, quanto nella vicenda umana e intima dell'attore Val, che compie la stessa parabola del personaggio di Pacino che sprofonda progressivamente nelle tenebre del sadomasochismo borchiato nel quale si era immerso per lavoro con l'illusione di poterlo tenere a distanza dalla propria condotta privata. Franco e Mathews giocano anzi a lasciar intendere più di una volta che anche le sequenze di supposto backstage, che inframmezzano le due brevi sezioni effettivamente girate come controparte porno di Cruising, siano basate su un copione ben preciso.
Interior. Leather Bar soffre però del pericolo che spesso aleggia sui progetti di James Franco (si veda anche l'omaggio a C.K. Williams, Tar, presentato all'ultimo Festival di Roma), ovvero quello di una suggestione che si fermi al puro livello intellettuale e cerebrale delle idee, sovente figlie anche di un ingenuo senso di sovversione mai davvero esplosivo. Il gioco di Interior. Leather Bar funziona pure, ma ad essere pericoloso più del film stesso è il ruolo di guru per tutta una certa generazione di artisti alternativi che Franco pare stare assumendo con sempre maggiore convinzione (nei provini posti all'inizio del film, gli attori si dichiarano tutti ultraconvinti del progetto solo perché c'è di mezzo James e la sua “missione” – sic!): la speranza è che l'aura di giovane genio che lo circonda non finisca per allontanarlo in maniera definitiva e irreversibile, paradossalmente, da quella carnalità che qui è invano ricercata e che invece nel cinema di Friedkin si pone, lì per davvero!, sempre prepotente e senza alcun filtro.