BERLINALE 65 – Gli architetti sono qua, hanno in mano la città

Forse si tratta di immaginare una redistribuzione degli spazi, un ripensamento della loro abitabilità. Quasi il cinema fosse chiamato a un lavoro di riorganizzazione urbanistica, a dare forme e vita all’architettura del virtuale e dell’immagine. E non è un caso che la questione diventi pressante proprio qui a Berlino

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l'orso d'oro ritirato dalla giovanissima protagonista di taxiLo avevamo detto. Sulla carta le premesse per un’edizione interessante c’erano tutte. Ma questa edizione della Berlinale, nonostante il solito caos delle programmazioni parallele, si è rivelata ancora più interessante del previsto, specialmente per quanto riguarda il concorso e la selezione ufficiale. Regalandoci visioni che resteranno impresse nella memoria e una serie di film destinati a essere centrali nella riflessione dei prossimi mesi. Al di là dei premi, che, come sempre, lasciano il tempo che trovano. Ma, anche su questo punto, il verdetto non ha deluso, anzi. C’era il timore che la giuria presieduta da Aronofsky potesse lasciarsi sedurre dai titoli più abbaglianti, dalle dichiarazioni autoriali di principio (Greenaway?) o dagli esercizi tecnici più muscolari (come il piano sequenza infinito di Victoria, che comunque porta a casa un premio per la miglior fotografia a Sturla Brandt-Grøvlen, che suona come un doveroso tributo ai padroni di casa tedeschi).

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Neanche la grandezza produttiva di Knight of Cups – film, peraltro, meravigliosamente fragile – ha fatto breccia. Anzi, alla fine ha vinto il film più “piccolo”, esile, che reca scritti in sé tutti i segni della sua clandestinità forzata. L’Orso d’Oro a Taxi di Jafar Panahi non è solo un premio di chiara valenza politica – e non è una novità per Berlino – ma anche l’affermazione netta di un’urgenza di cinema chiamato a confrontarsi quotidianamente con i suoi limiti, a inventare, con tutta la libertà e la lucidità teorica necessarie, il modo più imprevisto per mostrare se stesso e la sua visione. "Devi trovare da solo la tua strada", suggerisce Panahi all’aspirante filmmaker che si affaccia al suo finestrino. E, perciò, si rinchiude nell’abitacolo di un’auto – come da perfetto iranian movie – ma solo per aprirne gli sportelli. Gioca con la metafora, ma incontra la vita, a ogni angolo di strada. E, senza concludere, gira un film corsaro, “pirata”, che potrebbe benissimo figurare nella raccolta del venditore ambulante che coinvolge il regista nei suoi traffici. Panahi, il latitante, non ritira neanche l’Orso d’Oro. Ma indica una strategia di riappropriazione di “porzioni di terra”, di mondo e di verità in un tempo che sempre più refrattario a lasciarsi andare al pericolo della ripresa. “Senza trucchi”… E sembra di essere finalmente entrati nell’epoca del neorealismo 2.0.

 

taxiEcco, lo spazio, come set e come mondo. Se già nell’edizione dell’anno scorso sembrava questo il problema fondamentale, ora lo è più che mai. Con evidenza disarmante a partire da Malick, sempre più intento ad abbracciare il respiro segreto delle cose. Tra deserti, spiagge, città verticali, parcheggi, dov’è esattamente il suo set, quali sono i suoi confini? Forse tutto è proprio nelle immagini “già” filmate, quasi una specie di footage da rimanipolare all’infinito in una dimensione cinema inevitabilmente altra. Le storie sono un’eco, stanno sullo sfondo. Al pari del tempo che le scandisce. Per questo Wenders gira la sua storia (storiella secondo alcuni) in un 3D assolutamente necessario. Perché se già sappiamo che every thing will be fine, quello che conta allora sono i rapporti degli uomini con lo spazio, la loro possibilità di abitarlo e condividerlo. E il 3D serve proprio a disegnare l’architettura dei rapporti in profondità. Profondità letteralmente mangiata da James Franco, in quel primissimo piano finale. Non è stato amato Wenders, proprio perché la sua visione si è interamente concentrata sulla questione dei volumi e delle linee di direzione. Giocando quasi a nascondino tra i ghiacci del Canada, esattamente come fa l’amico Herzog tra le sabbie del deserto e il cast stellare (e tra Every Thing Will Be Fine e Queen of the Desert sembra esserci più di un punto di contatto).

 

Dov’è l’autore? Herzog manipola  il classico fino al punto massimo di tenuta, sui confini tra la regola e l’eversione ironica. Aderisce al personaggio di Gertrude Bell, alla sua indipendenza aliena, ma quel che conta è affrontare, insieme a lei, il set indefinito di un deserto popolato da miraggi, abitato da presenze beduine. Un po’ come il classico replicato fino allo sdoppiamento allucinatorio, alla visione sotto oppio di Jiang Wen, folle ricognizione dei generi che esplode fino a mandare all’aria ogni distinzione (peccato non averlo potuto vedere in 3D). Gone with the Bullets trasuda a ogni istante la gioia dell’invenzione senza freni, quasi come l’ennesima versione di Cinderella firmata da Branagh, che, da par suo, fa della libertà e dell’eccesso la chiave di volta per aprire le pareti del set.

 

under electric clouds“Il mondo è già filmato”, diceva Debord, puntualmente citato da Dieutre nel suo Viaggio nella dopo-storia, altro film che fa i conti con i limiti materiali e con la sottile “pirateria” insita nell’esercizio di ammirazione rosselliniana. Ma è vero in un mondo che ha espanso i suoi confini? E se è vero, cosa resta ancora da filmare, cosa è ancora filmabile? Herzog sembra dubitare. La sfida è ancora aperta. Forse si tratta di immaginare una redistribuzione degli spazi, un ripensamento della loro abitabilità, una ridefinizione dei termini di proprietà (intellettuale), dei confini tra l’individuale, l’intimo e il collettivo. Quasi il cinema fosse chiamato a un lavoro di riorganizzazione urbanistica, a dare forme e vita all’architettura del virtuale e dell’immagine. E non è un caso che la questione diventi pressante proprio qui a Berlino, metropoli che ha dovuto reinventarsi sull’equilibrio delle vertigini dell’espansione e le necessità della memoria. Lavoro infinito, pratica continua e in progress, che trova la sua metafora più evidente nella futuristica costruzione incompleta di Under Electric Clouds di German Jr. Scheletro di una visione, materializzazione di un sogno a due, di un uomo che è quasi un Dio e di un architetto rimasto ormai senza committente, incapace di mettere un punto, di dare una definizione, tetto o cupola che sia.

 

el clubNel suo incredibile film cantiere, German sfonda continuamente il quadro con la precisione apparentemente caotica della messinscena e dei suoi long take, che sembrano incontrare i personaggi quasi per caso, tra comparse che entrano in campo da ogni lato, sguardi in macchina, soggettive nascoste, interventi disordinati. Ogni sequenza è sottoposta a una forza eccentrica, che rimanda all’eversione del cinema di German senior e di Hard to Be a God. Ed è proprio questo omaggio alla figura paterna a rendere Under Electric Clouds un film intimissimo, quasi fragile e indifeso, nonostante l’apparente magniloquenza delle sue immagini curatissime e la complessità della sua costruzione narrativa. “Non posso più aiutarti, io sono morto”. Nascondendosi dietro il pretesto di raccontare la Storia, il presente e il futuro del Paese, German Jr mette in campo i suoi fantasmi personali, la paura e la sfida commovente di raccogliere un’eredità pesantissima. Il suo è il film più struggente del festival, insieme alla dolorosissima testimonianza fiaba di Ermanno Olmi, Torneranno i prati, riproposto nella sezione Berlinale Special. Altro lavoro fatto con poco, quasi con niente, con il trucco più semplice e con la sola forza del linguaggio, di quegli sguardi in macchina che ci interrogano direttamente e ci obbligano alla messa in gioco. Dove una canzone o un albero dorato sono la forza di volontà di un’immaginazione che tenta di uscire, smarcarsi dalla trincea cupa, desolante del set campo di battaglia. E non siamo molto lontani dalla cupezza e desolazione delle immagini di Pablo Larraín. In El Club non c’è l’appiglio dell’immaginazione, non c’è margine di salvezza, se non al fondo di un’umanissima rassegnazione, di un ultimo, disperato, tentativo di condivisione. La durezza di Larraín lascia senza fiato. Ma anche la consapevolezza che la lotta con il reale è una lotta politica concreta, che riguarda i gesti e gli atteggiamenti degli individui, le dinamiche dei loro rapporti in relazione all’organizzazione degli spazi e ai limiti imposti da un Potere che si autoalimenta e si autoassolve. L’umanità è un residuo e le vie di fuga, se ci sono, sono tra le maglie della prigione, nella trama delle immagini, all’uscita o all’entrata del flusso numerico di un digitale onnipotente, di un mondo già filmato, forse, ma non ancora perfettamente decodificato e decrittato.

E se, allora, la visione più esaltante e delirante di questa Berlinale 2015 l’avessimo vissuta altrove, fuori dal festival? In quella saletta di Rosenthaler Strasse, dove abbiamo incrociato, furtivamente, le allucinazioni di Blackhat e di Michael Mann. Non siamo ancora sicuri di averlo davvero visto. Ma prima o poi, dovremo farne i conti.

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