Blog ILCIOTTASILVESTRI – Leonard Bernstein non è più radical chic, ma neanche radical

Una riflessione sulla ricezione di Maestro di Bradley Cooper a Venezia80 e contro l’etichetta di radical chic accostata spesso al compositore. In origine pubblicato sul blog ilciottasilvestri

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Originariamente pubblicato su ilciottasilvestri.blogspot.com

 

Esterrefatto dalla reazione critica nazionale e internazionale di Venezia 80 a una Mostra invivibile come mai nella storia (indipendentemente dalla decina di film e oltre molto belli che vengono comunque scodellati, “classici” a parte, perché il comitato di selezione ha occhio e anima) e invece accolta da quotidiani poker di stelle come se gli stessi critici si rendessero ormai conto di non contare più nulla se non come gentili amplificatori pubblicitari di ogni visualità masticabile, registro che decenni di serie tv hanno cambiato il concetto di ricezione vispa, trasformando noie micidiali in capolavori assoluti (Poor Things, El Conde, Bastarden, Maestro, Killer…perfino Harmony Korine) e i film dotati di vita propria ed eccitanti in insopportabili polpettoni (i miei preferiti? Polanski, Ferrari, anche Besson, una commedia di Stephanie Rothman del 1974). Barbie e Oppenheimer non vengono forse trattati dal blob critico dominante come preistoria audiovisiva? Già. Tranne il divertimento acido di Costanzo (che pare il remake di Spqr, un film tedesco dei primi anni 70 sul cinema italiano, c’è anche l’hotel Plaza tra i protagonisti) i film italiani non reggono finora l’urto. Da cui la rabbia verso Ferrari, omaggio al Bertolucci di Strategia del ragno e al Bellocchio di I pugni in tasca perché è proprio quella Emilia del culatello che Michael Mann sa catturare magicamente. Infatti Adam Driver è stato qui perché il film è fuori norma, fuori schema, fuori Hollywood. Oltretutto Sergio Castellitto è già stato Enzo Ferrari in un film tv di 20 anni fa diretto da Carlo Carlei, non a caso discepolo di Michael Mann della prima ora. Già. Da decenni Hollywood è diventato un comparto secondario di giganteschi conglomerati che fanno profitti planetari vendendo poca arte e molto altro: armi, farmaci, prodotti chimici, sigarette (grande ritorno del tabacco, un tempo bandito, sul grande schermo), miniere, cliniche, acciaierie e carte di credito. Per questo i grandi Studios trattano il falso in bilancio da giocolieri (copiati dai governi democratici di tutto il mondo), le classifiche di incasso come momento marketing e gli attori e sceneggiatori che non sono super star come il diavolo trattava Faust (“volete vendermi per l’eternità la vostra voce e la vostra sagoma? Ecco a voi 30 mila dollari!”). Da cui lo sciopero di questi mesi.

Impressionante anche il controllo politico censorio sulle pellicole, come dimostra Maestro, in concorso a Venezia 80. Dunque già il titolo è perfido. Maestro, e lascia più che perplessi quando si tratta del bio-pic Netflix sul grande musicista Leonard Bernstein, superstar intoccabile perché idolo della televisione anni 70 per i suoi corsi di successo sulla musica sinfonica e operistica. Quel retrogusto Mastercard, che di Maestro è gestore, non è simpatico. Ma ho l’impressione che il perfido titolista alluda anche a qualcos’altro. Bernstein è stato definito infatti nel 1970, in piena guerra contro la guerra in Vietnam, da un prezzolato geniaccio della destra statunitense, Tom Wolfe, il “maestro dei radical chic”. Definizione abietta che ha tuttora grande successo nei salotti devoti alla “Grande Bellezza”. E perfino tra gli sceneggiatori statunitensi più liberal. Josh Singer ha scritto The Post e Il caso Spotlight. Gliel’hanno fatta pagare? Non credo però che tutti ricordino i fatti. E il film, diretto e interpretato con lunga protesi nasale criticatissima da Bradley Cooper, 48 anni (e coprodotto anche da Scorsese e Spielberg) – ma la Mostra 80 sta esibendo un debole verso gli “uomini soli al comando”, dopo che Comandante ha aperto la kermesse nell’imbarazzo generale e sta per arrivare anche Io Capitano – ha la vigliaccheria di oscurarli del tutto, dietro un interminabile e insopportabile melodramma-fotocopia di A star is born (algoritmico esordio di Cooper alla regia) che proprio di Bernstein come “maestro di musica”, direttore d’orchestra mitico, si occupa pochissimo e si ostina invece (come una spia dell’Fbi pagata da Hoover) a rovistare nelle avventure coniugali (24 anni di matrimonio) ed extraconiugali, perché omosessuali, dell’artista di origini aschenazita. E’ come raccontare Hitler tralasciando non dico la “soluzione finale” ma anche solo la “notte dei cristalli”. Peccato. Bradley Cooper dimostra di dirigere con stile radicale e chic le schermaglie d’amore tra Bernstein e l’amata Felicia Montealegre (nella prima parte del film, in bianco e nero stile “Life”-”Time” epoca più amata, anche se davvero di piombo, Corea, maccartismo…) e anche i duelli d’odio della storia (con i colori lisergici della contestazione generale, dunque un po’ malati e avvelenati). Ma è come se ignorasse con ostinazione gli scontri aspri della Storia. Dopo un famoso party del 14 gennaio del 1970 il compositore dei celebri musical West Side Story e Un giorno a New York – nonché direttore d’orchestra della New York Philarmonic succedendo giovanissimo a Bruno Walter – e sua moglie Felicia, attrice di origine cilena molto impegnata politicamente a sinistra, sono stati infatti oggetto della madre di tutte le vergognose campagne mediatiche scatenate nell’ultimo mezzo secolo. All’epoca Bernstein preparava un epocale Fidelio. E la coppia ospitò nella propria villa (c’è chi riconosce il valore bancario dell’arte) circa 90 persone per raccogliere fondi (10 mila dollari) a sostegno delle famiglie dei “Panther 21”, i militanti del partito delle Pantere nere newyorchesi arrestati il 2 aprile 1969 e accusati di aver progettato attentati dinamitardi contro sedi della polizia, grandi magazzini e altri edifici pubblici di Manhattan. Dopo 9 mesi di carcere i “Panther 21” cauzione a 100 mila dollari, senza risorse per preparare una adeguata difesa, non solo sono stati tutti scagionati ma sono risultati vittime di infiltrati dell’Fbi che avrebbero organizzato il complotto con la complicità dei massmedia (anche liberal) e delle forze dell’ordine. Altro che radical chic. Altro che “la più grande minaccia alla sicurezza interna del paese” come il direttore dell’FBI Edgar Hoover definì il Black Panther Party per il suo dichiarato marxismo. Altro che “giusto processo”. Piuttosto una plateale violazione delle libertà civili che fu rintuzzata dall’opinione pubblica e dal Movement (si schierarono con le pantere nere anche Marlon Brando e Jean Seberg, altre divinità radical chic) e i Bernstein, perché non era più il tempo di maccartismi. Alla festa parteciparono tra gli altri Otto Preminger, Sidney e Gail Lumet, Barbara Walters, Bob Silvers, le mogli di Arthur Penn e Harry Belafonte, e i leader del Black Panther Party Robert Bay, Donald Cox e Henry Miller. Charlotte Curtis sul New York Times (15 gennaio) scrisse tra l’altro: “Eccoli lì, le Pantere Nere del ghetto e i liberali bianchi e neri delle classi medie, medio-alte e alte che si studiavano cautamente tra i mobili costosi, le elaborate composizioni floreali, i cocktail e i vassoi d’argento di tartine” mentre il giorno dopo un editoriale disgustoso aizzava al linciaggio morale: “L’emergere delle Pantere Nere come beniamini romantici del jet set politico-culturale è un affronto alla maggioranza dei neri americani…

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La terapia di gruppo più la serata di raccolta fondi a casa di Leonard Bernstein… rappresenta il tipo di elegante baraccopoli che degrada sia i clienti che i patrocinati. Potrebbe essere liquidata come un divertimento che allevia i sensi di colpa arricchito di coscienza sociale, tranne per il suo impatto su quei bianchi e neri che lavorano seriamente per la completa uguaglianza e la giustizia sociale. Ha deriso la memoria di Martin Luther King Jr. …” (The New York Times, 16 gennaio 1970). La risposta della signora Bernstein fu pubblicata, ovviamente molti giorni dopo: “Come donna impegnata nella tutela dello stato di diritto ho invitato un certo numero di persone a casa mia il 14 gennaio per ascoltare l’avvocato e altri coinvolti nel processo ai “Panther 21”, discutere il problema delle libertà civili applicabili agli uomini ora in attesa di processo, e per aiutare a raccogliere fondi per le loro spese legali… È stato per questo scopo profondamente serio che è stato convocato il nostro incontro. Il modo frivolo in cui è stato riportato come un evento “di moda” è indegno del Times è offensivo per tutte le persone impegnati a far rispettare la giustizia.” (New York Times, 21 gennaio 1970). Nei mesi successivi i Bernstein ricevettero lettere minatorie, furono oggetto di innumerevoli attacchi stampa e vessati per tutta la primavera davanti al loro edificio da manifestanti dell’associazione ebraica “Defense League” che protestò a gran voce contro il presunto “appoggio” di Bernstein alle Pantere nere antisioniste. Cinque mesi dopo la raccolta fondi fu immortalata in un lungo saggio di Tom Wolfe sul New York Magazine intitolato “Radical Chic: That Party at Lenny’s” (8 giugno 1970). Nel film si fa una vaga allusione alla invidia e alla gelosia che motivavano gli attacchi durissimi ricevuti da Lenny Bernstein, senza chiarire che si allude a Tom Wolfe e al party “hollywoodiano”. Come i reazionari di casa nostra di destra e di sinistra appresero bisogna essere livorosi contro gli artisti liberi, milionari per il loro maggiore talento, e dunque da aggredire “squadristicamente” a parole meglio se prezzolati dai “diversamente miliardari”.

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