Venezia 80 – Il Maestro è nell’anima

La Mostra di Venezia sembra vivere tranquilla, nella placida indifferenza della bolla del Lido. Nulla cambia e forse proprio questo è il limite. Ma rimane comunque un’edizione di ottimo livello

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È strano, ma una delle “notizie” che più hanno fatto rumore tra gli addetti ai lavori, durante questa Venezia 80, è stata quella delle dimissioni di Carlo Chatrian dalla direzione artistica della Berlinale. Il che, da un lato, la dice lunga su quanto siano mancati grandi motivi di discussione in quest’edizione della Mostra del cinema. A parte qualche sterile polemica sul film di apertura di Edoardo De Angelis, Comandante, pretestuosamente tacciato di “fascismo” e “nazionalismo”. Accuse che sembrano ben lontane dalle reali intenzioni degli autori e, soprattutto, dal cuore del film. Oppure l’incredulità suscitata dalla volgarità spinta di The Palace, l’ultimo lavoro di Polanski scritto insieme a Skolimowski, che nel suo esibito “cattivo gusto” ha scatenato un assurdo meccanismo di proiezioni e rimozioni. Ma la vicenda di Berlino apre anche una riflessione sul ruolo e sulle prospettive dei festival, in particolare dei grandi eventi, in rapporto all’industria e alle tendenze del cinema contemporaneo. Una vicenda gestita quanto meno in maniera maldestra dai vertici della Berlinale e dal ministro della cultura tedesco, Claudia Roth. Che, in maniera unilaterale, hanno affermato la volontà di tornare a una guida unica, dopo gli anni di convivenza tra Chatrian e Mariëtte Rissenbeek nel ruolo di direttrice esecutiva. “Le decisioni necessarie per modernizzare la Berlinale, per garantirne il futuro e la sostenibilità, dovrebbero ora essere nuovamente nelle mani di una sola persona, per sviluppare ulteriormente la Berlinale come festival del pubblico… e rafforzarne la posizione tra i festival internazionali di cinema di serie A”. Non un diretto benservito, ma in ogni caso un cambio di marcia netto rispetto alle intese dei mesi precedenti, che lasciavano intendere una continuità. Questo, almeno, secondo la versione di Chatrian, che ha rassegnato le dimissioni, prendendo atto di una profonda rottura: “è evidente che non ci sono più le condizioni per continuare a ricoprire l’incarico di direttore artistico”. In suo favore, su iniziativa di Radu Jude, c’è stato un appello da parte di numerosi registi e professionisti, che hanno firmato una lettera aperta in sostegno della sua conferma: oltre trecento adesioni tra cui quelle di Scorsese, Shyamalan, Schrader, Claire Denis, Mario Martone, Olivier Assayas, Hong Sang-soo… Fatto sta che la prossima edizione di febbraio dovrebbe essere l’ultima diretta da Chatrian. Ma, al di là del merito, questo caos della Berlinale conferma idee e sensazioni che avevamo da tempo: una crisi più generale dell’idea tradizionale di festival e l’obbligo di ripensare obiettivi, strategie e posizioni. Cosa ancora più vera per un evento che ambisce ad essere di “serie A” e che, quindi, ha necessità di un rapporto più organico e complice con la grande industria cinematografica, con i produttori e i venditori, di attrarre anteprime di prestigio e titoli più mainstream che possano far da richiamo per il grande pubblico. Con il rischio, però, di snaturare le vocazioni alternative, di penalizzare l’apertura alle novità, i percorsi di ricerca, e persino il rapporto con il contesto di riferimento.

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Gli unici due festival che non sembrano minimamente avvertire l’esigenza di una riflessione profonda, nonostante i cambiamenti in atto, sono Cannes e Venezia. Che continuano a perseverare nelle loro formule ormai inattaccabili, a combattere per accaparrarsi i film più prestigiosi e gli autori più affermati, cannibalizzando di fatto il panorama dei grandi eventi cinematografici. Cannes, nella sua volontà di ribadire, anche in maniera un po’ arrogante, il suo primato elitario, mostra da tempo segni di incrinature strutturali, pericoli di implosione sotto il peso di difficoltà logistiche e organizzative. E, d’altro canto, pare ormai giunta a un punto di netta contraddizione tra la sua vocazione internazionale e la fin troppo scoperta tendenza a serrare i ranghi dell’establishment cinematografico francese. Venezia, invece, sembra vivere più tranquilla, nella placida indifferenza della bolla del Lido. Dove il tempo non lascia segni e tutto è uguale a sé stesso. Del resto, ormai da alcuni anni la Mostra ha risolto molti problemi concreti riguardo la capienza delle sale, l’accessibilità degli spazi, il sistema dei controlli. E le risposte organizzative agli afflussi e alle domande del pubblico appaiono pienamente adeguate. Semmai è proprio questa mite “monotonia” il limite del festival, questa sensazione di ripetizione infinita. Forse, ciò che manca – e lo ribadiamo da anni – è una maggiore connessione con la città di Venezia, un’idea di effettiva penetrazione e ridefinizione del contesto di riferimento. Lacuna (o laguna?) atavica, dovuta alle particolarità del Lido e della città, certo, e alle rigide compartimentazioni de La Biennale. Ma anche alla scarsa capacità di immaginare la riscrittura della geografia di un luogo attraverso la strategia “immateriale” dei consumi culturali. Alberto Barbera ha responsabilità limitate sotto quest’aspetto, ma è un ragionamento che può valere come umile suggerimento per le prossime stagioni, visti i cambiamenti che si prevedono alla presidenza de La Biennale e alla direzione artistica del festival.

Per il resto, va comunque dato atto a Barbera di aver costruito un programma di solidità invidiabile. Già sulla carta, con una serie di grandi nomi dentro e fuori il concorso: Michael Mann, David Fincher, Woody Allen, Roman Polanski, William Friedkin, ecc… Ecco, magari, le perplessità possono riguardare proprio quest’eccessiva tendenza a giocare sul sicuro, ad appoggiarsi su autori già consolidati e approcci ormai assurti a convenzione. Anche a dispetto dei segnali emersi nelle più recenti edizioni, come il Leone d’oro a Laura Poitras che sembrava una definitiva affermazione della pratica documentaristica. Quest’anno, invece, c’è stata un’immediata retromarcia, un ritorno alla consueta “diffidenza”. Nessuno documentario in concorso. Eppure, anche rimanendo sui grandi autori, sarebbe bastato immaginare uno spazio diverso per lo straordinario Menus Plaisirs di Frederick Wiseman. Per il resto, tra i film in competizione l’unico azzardo vero, che tenta un confronto aperto con le trasformazioni delle forme e delle modalità di visione, è La bête di Bertrand Bonello. Pur con tutte le sue contorsioni. Ma ancor più dubbi rimangono sulla decisione di inserire ben sei film italiani in concorso: vuoi o non vuoi, è il segno di una svolta protezionistica del festival. Anche perché, nel complesso, la compagine italiana è apparsa in affanno, un passo indietro rispetto a una selezione di ottimo livello. Il premio alla regia a Garrone per Io capitano non cambia le cose: sembra rispondere più rispondere a logiche “geopolitiche” di equilibrio nelle scelte di giuria. Verrebbe quasi da dire che, a parte la personale fascinazione per Comandante, i film italiani più interessanti erano altrove, nelle sezioni collaterali: come L’avamposto di Edoardo Morabito (Orizzonti) o Gli oceani sono i veri continenti di Tommaso Santambrogio (Giornate degli Autori).

Sì: nel concorso di questa Venezia 80 si è distinto ben altro. Decisamente. Nonostante un paio di cadute disastrose (El Conde di Larraín, Origin di Ava DuVernay). E anche se alcuni dei nomi più attesi mostrano di essere entrati in una fase problematica, forse di mutamento, (Fincher, Sofia Coppola, Michael Mann), pur rimanendo a conti fatti dei punti di riferimento assoluti. Persino registi che non abbiamo mai particolarmente amato, sembrano essere entrati in una fase nuova, più libera e umana. A cominciare dal Leone d’oro, Yorgos Lanthimos, che con Poor Things!si rimette in discussione”, come scrive Simone Emiliani. Oppure Malgorzata Szumowksa che, con Michal Englert, dà mostra di una sensibilità inaspettata. O ancora Michel Franco, che con Memoryci costringe – almeno stavolta – a ritornare sui nostri passi e a prendere differenti misure nei confronti di questa love story”, come dice Carlo Valeri. Ma, ancor di più, tra le visioni del concorso, le folgorazioni sono arrivate da Hamaguchi, con i suoi silenzi e la fluidità emotiva dei suoi movimenti di macchina, dai richiami cristologici di Dogman di Besson, retto da un incredibile equilibrio registico e da una straordinaria interpretazione di Caleb Landry Jones. E, soprattutto, dal romanticismo rigoroso di Hors-Saison, di Stéphane Brizé, che si conferma un autore profondamente “selvaggio”.

Altrove, rimangono negli occhi la precisione, la passione e il ritmo di Wiseman, la straordinaria concentrazione di Hokage di Tsukamoto, film di suprema messinscena e dolorosa densità, il trip di Harmony Korine, che, anche se tra dubbi, segna il tentativo di abbandonarsi a una visione puramente esperienziale. E, ancora, la velocità quasi soderberghiana di Hit Man di Linklater, la capacità di giocare con gli spazi chiusi del set di Friedkin, che con The Caine Mutiny Court-Martial firma, purtroppo, il definitivo suggello di una carriera immensa. E poi, alcuni dei titoli della Settimana della Critica, che sembra aver ritrovato una vena arrembante e battagliera (Love Is a Gun, il film di chiusura Vermin). Mentre la selezione di Venezia classici ha regalato il film più politico, esplosivo e travolgente di questo festival: l’incredibile Harmonica di Amir Naderi, che dietro l’apparenza di uno sguardo ad altezza bambino, racconta di ossessioni, soprusi e rivolte.

Ma i colpi al cuore assoluti sono due film diversi molto diversi tra loro, eppur ugualmente strazianti. Day of the Fight di Jack Huston (Orizzonti extra), film che riattraversa una New York “città amara” e tutto l’immaginario del cinema di boxe, e che squarcia l’anima attraverso i volti, i corpi, i gesti, le parole di personaggi veri, pieni, umanissimi. E, poi, Maestro, di Bradley Cooper, che al suo secondo film realizza un’opera di una maturità stilistica quasi “mostruosa”, fatta di cambi di tono e ritmo, di lavori sui formati e sulla grana delle immagini, di sensibilità umanissima ai dettagli. Ma soprattutto conferma, dopo A Star Is Born, l’urgenza delle sue motivazioni. La ricerca della verità di sé stessi, il bisogno di mantener vivo il fuoco dell’espressione creativa, il dolore di un’immagine che scopre la propria finzione nello specchio della vita. Non sarà certo un caso che ogni volta di fronte ai film di Cooper, due film su due, siamo usciti dalla sala con il cuore e gli occhi gonfi, in silenzio, come tramortiti. Sarà questione di corde segrete, la scoperta di una scintilla che era assopita chissà dove, tra le pieghe delle cose. Sarà un desiderio di sensibilità: “bisogna essere gentili”. Di sicuro, è qualcosa non ha più a che fare con i “giochi” inutili della critica, con gli abbagli dell’autorità, delle analisi, delle valutazioni condensate nella sterilità di un voto. È qualcosa che ha a che fare con il modo in cui viviamo. Ed è ciò che conta di più, che ancora ci fa amare queste immagini che si agitano sullo schermo.

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