#Cannes76 – Una certa tendenza del cinema francese

Un bilancio del festival, tra problemi di organizzazione e programmazione, segnali di stanchezza e visioni da ricordare

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La 76ª edizione di Cannes si è conclusa con la palma d’oro ad Anatomie d’une chute di Justine Triet, una vittoria in larga parte preannunciata che è stata salutata con grande entusiasmo da certa critica francese, dai Cahiers du cinéma a Libération. Secondo Marcos Uzal, sulle pagine dei Cahiers, quello di Justine Triet è “non solo di uno dei film più belli visti in concorso, ma anche quello che sintetizza la maggior parte delle domande che si sono incrociate nel corso di questa edizione”. Più fredda la nostra posizione, ma poco importa. Si sa che i premi rispondono anche, se non soprattutto, a visioni strategiche. E, al di là delle valutazioni di merito, è evidente che il riconoscimento ad Anatomie d’une chute rispecchia idee e posizioni di un sistema cinematografico e culturale francese, che da anni sembra compattarsi strategicamente sulle scelte di Cannes. Basterebbe guardare alle classifiche stilate da riviste e giornali nelle ultime stagioni per rendersi conto della considerazione riservata ai film passati sulla Croisette. E il festival risponde, accogliendo istanze e aspettative di alcune delle voci più influenti della critica. È fisiologico, si dirà. Probabile… Ma, in ogni caso, emerge sempre più netta l’immagine di un establishment compatto, che non contempla molte possibilità di deviazione. È un’immagine della conservazione?

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Eppure tutto ciò andrebbe in contraddizione con altri segnali, che sembrano rispondere a un’idea di svecchiamento e novità. La Palma d’oro a Justine Triet si pone in linea con gran parte dei verdetti dei grandi festival degli ultimi anni, con la scelta delle giurie di premiare registi tra i trenta e i quarant’anni. Julia Doucurnau e Ruben Östlund a Cannes 2021 e 2022, Audrey Diwan a Venezia 2021, Radu Jude alla Berlinale 2021… Una tendenza che, almeno nelle intenzioni, non appare molto diversa dall’altra emersa dalle ultime edizioni di Venezia e di Berlino, con la vittoria di due documentari, All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras e Sur l’Adamant di Nicolas Philibert. Nel momento in cui il cinema, costretto a ripensare la propria posizione, registra una fatica e uno scollamento rispetto a esigenze, domande e desideri, ecco che si fa appello ai registi più giovani (o ancora giovani) o alla pratica “alternativa” del documentario. Ma non è una pura e semplice equazione. Non è il dato anagrafico a garantire una reale capacità di innovazione, men che meno una purezza di sguardo. E girare un documentario non vuol dire sempre avere la capacità di sperimentare e inventare forme. Specialmente oggi, in cui la produzione punta sempre più alla standardizzazione e all’omologazione delle “realtà” cinematograficamente abbordabili.

In questi giorni abbiamo avuto diverse discussioni sui film e sulle indicazioni emerse da questa Cannes 76, anche con amici di altre testate. Molti sottolineavano il buon livello medio della selezione e del concorso, ma lamentavano l’assenza di scoperte e di sorprese, di nuove indicazioni formali, di un lavoro di ricerca sulle immagini. Tranne rare eccezioni. Riflessioni condivisibili, ma che lasciano spazio comunque a un paio di dubbi. Forse, questa ansia del nuovo, del “mai visto”, può essere la conseguenza di una bulimia di visioni che ha saturato la nostra prospettiva, consumandoci gli occhi. E non è detto che “scoperta” e “sorpresa” siano necessariamente sinonimi di “innovazione”. Di certo, l’indicazione di nuove strade non può essere solo il frutto di un’operazione chirurgica, fredda, programmatica. Il concettuale è destinato a esaurirsi in breve tempo, se non si regge sulla sostanza e l’urgenza di un discorso concreto. E allora, magari, nel flusso caotico delle immagini di oggi, sarebbe più necessario e vitale andare alla ricerca di una purezza di sguardo, di film e autori che siano ancora capaci di porsi domande fondamentali sul cinema e sul mondo, e che siano in grado di trovare forme e risposte “essenziali”. Così, con buona pace delle ansie, ci sembra ancora che la purezza stia dalla parte di alcuni “vecchi” autori, come Kaurismäki, come Wenders, come anche Erice.

Ma probabilmente, la questione è che oggi non è da un festival come Cannes che possono arrivare le indicazioni su un “cinema del futuro”. Da sempre i grandi eventi sono una registrazione e una messa in mostra dell’esistente, prima ancora che un luogo di ricerca e di sperimentazione. E se già l’anno scorso avevamo riconosciuto Cannes come la “punta estrema di un irrigidimento degli eventi cinematografici, di un’incapacità a ripensare forme, pratiche, modi di fruizione”, quest’anno la sensazione si è ampliata. Una macchina organizzativa ancor più lenta, schiacciata sotto il peso dei numeri e delle rigidità burocratiche. E alcune scelte di selezione e di programmazione che rispondono a logiche passatiste di potentati culturali e di mercato, impegnati a difendere posizioni e ribadire privilegi acquisiti. Sì, Cannes ha sempre svelato, tra le righe, intenzioni elitarie e distinzioni di classe. Come modalità di affermazione di un’aura sacrale. Ora, però, a tratti sembra che le modalità di funzionamento, le regole, le  etichette, le pratiche di promozione e diffusione, si siano disumanizzate. Un po’ indifferenti non solo ai film e a quel che davvero hanno da dire, ma soprattutto alle persone che li realizzano, li guardano, ne discutono, li amano e li combattono, li promuovono e li difendono. Quelli che nella sostanza sono l’anima di questo mondo.

Non sono mancate le polemiche, come quella di Victor Erice, che ha rinunciato a venire al festival per presentare il suo Cerrar los ojos e che ha spiegato le sue ragioni in una lettera aperta a El País. È sacrosanto e fisiologico. E si dovrebbe correttamente distinguere tra la selezione ufficiale, la Quinzaine, la Semaine ecc… Ma, al di là dei singoli episodi, la sensazione è quella di un problema più profondo e generale, che riguarda la logica, la vocazione, la funzione dei festival. E Il loro stesso futuro.

Noi continuiamo a discutere di film, in ogni caso. Ad appassionarci alle immagini. Perciò continuiamo a esaltare la visione struggente di Les feuilles mortes di Aki Kaurismäki, sopra ogni altra cosa. E di Perfect Days di Wim Wenders. O ancora, in ordine sparso, Bellocchio, l’Indiana Jones di Mangold, Hong Sang-soo, Erice, il caos distruttivo di Kitano, i ritratti fantasma di Kleber Mendonça Filho. E le precarie soluzioni di Gondry, del suo cinema sgangherato e disperato, capace di risorgere ogni volta dal nulla. Magari è lì che si nascondono le tracce del futuro.

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