In Our Day, di Hong Sang-soo

Dopo In Water, il regista coreano recupera la piena visione, ma sembra intenzionato a non lasciar altro che impronte leggere. Come un segno effimero. Chiusura della Quinzaine des cinéastes

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C’era da temere che dopo le sfocature di In Water, Hong Sang-soo non fosse più in grado di recuperare la piena visione. Che ci costringesse, tra le nebbie dell’uveite, a non distinguere più i contorni delle cose, a uno smarrimento di percezioni inesatte, proiezioni e rappresentazioni forzate. Un naturale processo di consunzione degli occhi, dovuto magari all’eccessivo sforzo dei film girati senza posa, in tutta velocità, alla sfiancante ripetizione di messe in quadro, angolazioni, situazioni. Invece, con In Our Day, Hong Sang-soo ritrova uno sguardo nitido. Sebbene ritorni a una specie di grado zero, a una semplificazione estrema, come per riposarsi dalle fatiche. Poche, lunghe scene risolte in una sola inquadratura fissa, un’articolazione di montaggio praticamente inesistente, se non per brevi inserti d’apertura. E poi i soliti, lunghi dialoghi che sembrano sempre ruotare intorno a un punto, senza mai trovarlo.

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Sono due le situazioni che si alternano. Un’attrice ha deciso di ricominciare la sua vita e probabilmente di abbandonare la sua carriera (ed è interessante che si tratti di Kim Min-hee, che in In Water era presente solo come voce e chitarra). Si rifugia a casa di un’amica a Seul e viene raggiunta da una giovane conoscente che vuole dedicarsi alla recitazione ed è quindi in cerca di consigli. Un poeta dal successo tardivo sta cercando di smettere di bere e fumare. Trascorre la giornata con una ragazza che intende realizzare un documentario su di lui e con un ammiratore che vuole fargli alcune domande. Due personaggi colti in un momento di svolta, che probabilmente non si realizzerà mai. Ma soprattutto due linee che non disegnano nessun’ipotesi di sviluppo e che non trovano più molti punti di connessione.

Sì, si tratta nella sostanza di due scambi generazionali, in cui i giovani cercano risposte dai più esperti e anziani. Ma Hong Sang-soo suggerisce solo un’assonanza su alcune rime interne. Un pranzo con i ramyun istantanei e una crema di peperoncini piccanti, una chitarra appena pizzicata, poco altro. Non c’è intreccio, combinazione, neanche riflesso in fondo. Kim Min-hee neppure canta più. E la linea di trasmissione sembra interrotta. Le domande restano sospese nel vuoto del punto interrogativo.

Forse ha ragione il vecchio poeta, quando dice che nella vita non si deve ricercare un senso, ma che bisogna godere dell’attimo senza porsi molte domande. Ogni nostro giorno. Una risposta saggia, probabilmente, che è un’intuizione del vuoto. Ma che tradisce anche una sottile tristezza, come una resa delle intenzioni e dei propositi. Se prima era questione di loop, di inconcludenti giri a vuoto, ora il cinema di Hong Sang-soo fa perdere quasi del tutto le sue tracce. Come se desiderasse non lasciare altro che impronte leggere, sulla sabbia. È come un segno effimero, uno sbuffo di calligrafia, un gesto di bellezza ripetuto in un rituale, fusa di gatto. L’unica cosa certa è che non smetteremo mai di bere e fumare.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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