Love Is a Gun, di Lee Hong-Chi
Convincente opera prima alla regia del noto attore taiwanese. Il protagonista, appena rilasciato, dovrà rifare i conti con i fantasmi del passato. VENEZIA80. Settimana della Critica.

Rilasciato dalla prigione il protagonista, Sweet Potato (interpretato dal regista stesso, Lee Hong-Chi), torna a gestire una piccola impresa in riva al mare, nonostante le persone a lui vicino gli consiglino di lasciar perdere. Sembra abbia intrapreso una vita tranquilla e lontana dai guai, ma è solo una breve parentesi perché all’improvviso riemergono tutti i fantasmi del passato. Il suo vecchio capo, la mamma piena di debiti e il suo losco amico Maozi si ripresentano prepotentemente, riappropriandosi della sua esistenza e facendo in modo che il futuro si mostri sempre più incerto e torbido. Solo una persona riesce a regalargli momenti di serenità e speranza, Seven. Un giorno però i nodi tornano tutti al pettine, sempre in riva al mare, tra smog e caldo opprimente, “il capo” gli concederà finalmente un incontro…
Opera prima al lungometraggio per il trentatreenne taiwanese Lee Hong-Chi, autore anche della sceneggiatura, famoso nel suo Paese perché noto attore. Non c’è dubbio che lo sguardo dell’autore sia ispirato e regali un’atmosfera sempre in bilico tra scatti di violenza improvvisi e andature ondulanti che permettono di entrare totalmente nella storia. L’amore mortale si conferma un perfetto quasi ossimoro dell’esistenza, soprattutto se a raccontarlo è un giovane attore taiwanese capace di richiamare in toto gli stilemi linguistici di una terra ferocemente “contesa”. Non mancano momenti in cui l’opera riesce ad essere anche particolarmente avvincente e nello stesso tempo capace di rallentare i battiti per permettere alla storia di respirare quanto dovuto e decantare con estrema leggerezza e decisione all’unisono. Pur non certamente diversa da tante altre opere giunte dall’estremo oriente, resta però convincente il senso circolare del racconto scritto e in particolare visivo, perché l’orizzontalità della quotidianità si mescola in più occasioni con la verticalità del perenne disagio.