Hors-saison, di Stéphane Brizé

Questo straordinario romanticismo non ha bisogno del dramma dei conflitti o di troppe parole. Sa raccontare un’atmosfera, ma anche l’aspetto più prosaico e surreale del quotidiano. VENEZIA80. Concorso

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Non riesco a far uscire quello che ho dentro”, dice a un certo Alice, in uno dei momenti più dolorosi di Hors-saison. Ha appena fatto ascoltare a Mathieu un brano che ha composto. Ma non sta semplicemente parlando di un’attività creativa in cui dar libero sfogo al suo talento di pianista. È un discorso più generale, che riguarda la possibilità di riconoscere le esigenze di una profondità autentica e di trovarne l’espressione più esatta, una consonanza più piena con le azioni e le scelte che si compiono. Prima ancora che con le parole. È una delle chiavi per entrare nel cuore del film di Stéphane Brizé (che su questo piano sembra dialogare a distanza con Maestro di Bradley Cooper). E non è un caso che Mathieu sia un famoso attore di cinema. Un artista, dunque, ma anche un uomo che mostra continuamente il lato della finzione, costretto a rendere conto del suo personaggio pubblico (è straordinaria la sua reazione quando il trainer sulla spiaggia non lo riconosce…)

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Ciò che colpisce in Hors-saison è il fatto che, tranne pochi, per altro fantastici e decisivi dialoghi, l’amore è tutto un affare di silenzi, di sguardi, di stati emotivi e di pensieri. E di comportamenti, di gesti concreti. Anche contraddittori, certo. Le rotture minacciate e mai consumate, i ritorni dopo gli addii, i dubbi, i tormenti. Un “non tornare mai più” è un commiato definitivo o un invito segreto? Del resto, le storie vere non sono mai lineari. E sarà per questo che quando Guillame Canet e Alba Rohrwacher passeggiano, molto spesso sembrano allontanarsi e seguire due strade differenti. Come barche che cercano il vento più adatto per arrivare allo stesso punto di destinazione. Ciò che conta è che l’amore si vive, non basta solamente dirlo. Tanto non ci saranno mai parole abbastanza precise (o vaghe) per restituire le sue mille forme. Si vive anche nei suoi alti e bassi, nei vuoti, anche nelle reticenze. Anche nell’affanno di un accordo impossibile con gli obblighi, le scelte già compiute, le responsabilità.

Seguito il solco di un sentiero m’ebbi l’opposto in cuore, col suo invito. È questo, lo straordinario film di Stéphane Brizé. Una storia di seconde possibilità, certo. Ma soprattutto sullo scollamento dal quotidiano delle proprie vite, sul tempo passato e sul miraggio del futuro, sulla dolorosa malinconia dei ritorni “fuori stagione”. Sul conflitto insanabile tra la tortuosità del sentimento e la pretesa coerenza dei percorsi. Infatti Mathieu viene costantemente richiamato alla responsabilità. Dal regista della pièce teatrale che avrebbe dovuto segnare il suo debutto sul palcoscenico, ma da cui è scappato per paura di non essere all’altezza. Dalla moglie che gli chiede di accettare le sceneggiature che gli vengono proposte, per ripagare i danni dello spettacolo a cui ha rinunciato. E Brizé non manca di lanciare qui le sue stilettate a un’idea comoda del cinema: “la strategia migliore è fare prima il polar e poi la commedia sociale”. Ma, al di là della polemica, conta la sensazione amara di una gabbia da cui è difficile districarsi.

Il punto è questo. In fondo, tra il singolo e il mondo c’è ancora conflitto, ma stavolta Stéphane Brizé non usa l’arma della rabbia. Ma quella della delicatezza e dell’attenzione. La bellezza del suo romanticismo è che non ha bisogno del dramma dei grandi conflitti, del sangue degli scontri. Non è mai urlato, non si gonfia di dichiarazioni roboanti. Più che sulle parole, le emozioni si muovono sulle musiche, sulla partitura praticamente ininterrotta di Vincent Delerm. Brizé sa raccontare un’atmosfera, anche giocando con gli stereotipi: la Bretagna piovosa, il mare d’inverno… Ma non è neanche semplicemente lirico. Nonostante sembri omaggiare apertamente certo cinema di Lelouch, ha sempre ben presente la realtà più prosaica del quotidiano. E sa così esprimere una vena ironica, surreale, che racconta una specie di straniamento, di distanza da una freddezza che è il rumore di fondo del mondo. Mathieu si muove nella lussuosa e asettica Thalasso Spa in cui si è rifugiato come un Tati in rotta con gli oggetti, o un Suleiman incredulo e spaesato. È lui, a conti fatti, il personaggio più in crisi, più fragile e passivo. Alice, invece, nonostante i tormenti, compie tutti i passi decisivi, all’inizio, durante, alla fine. Mathieu si lascia agire. Ma ciò che conta è che, piano piano, tutto riprende calore. Il divertimento diventa sempre più aperto, come in quegli esilaranti esordi al bar e al ristorante. E l’immagine si apre, si libera dalla simmetria dei movimenti, per giocare con la scompostezza dei dispositivi e dei formati. Poco importa come andrà a finire. Poco importa se alla gioia corrispondono un dolore e una malinconia altrettanto intensi. È la vita.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5
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Il voto dei lettori
4 (6 voti)
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    Un commento

    • Noiosissima nenia… nulla di nuovo, temi visti e rivisti. Sta in piedi solo grazie agli attori. Per il resto pessimo