Maestro, di Bradley Cooper

Il cinema come un visore infrarossi per vedere le “scie d’amore”. Dopo A Star is Born, clamorosa conferma della nascita di un nuovo grande autore del cinema contemporaneo. VENEZIA80 – Concorso

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Che cos’è quel qualcosa che si muove tra le persone? Quale disciplina – tecnico, scientifica o filosofica – riesce a spiegare quella luce particolare che si intravede tra i corpi (e le anime?) dei personaggi di una storia? È possibile filmare questo spazio, tra le persone, alla maniera in cui riusciva a farlo, con la pittura, un Maestro come Velasquez, che, per Godard “dipingeva lo spazio che c’è tra le cose”?

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Eccoci qua, con un attore belloccio americano che, per Sentieri selvaggi, è già un grande autore del cinema contemporaneo dal 2018, anno del sublime A Star Is Born, cui dedicammo un lungo e intenso speciale.

Potevamo esserci sbagliati, un lampo, un bagliore improvviso e imprevedibile. Invece a distanza di un lustro Cooper torna con un piccolo grande capolavoro, quasi un intimissimo filmino familiare, per provare a raccontare quello che c’era tra il grande musicista e direttore d’orchestra Leonard Bernstein (lo stesso Cooper un‘interpretazione “marchiata” dal trucco infinito di Kazu Hiro) e la moglie, l’attrice Felicia Montealegre Cohn Bernstein (interpretazione “da Oscar” per Carey Mulligan). Non c’è altro, se non nei contorni, tutto ruota attorno a questa relazione. Anzi no, c’è anche, soprattutto, la musica!

Maestro, di Bradley Cooper

Nella nuvola

Ed eccoci scaraventati dentro un bianco e nero 1:33 (“volevo fosse come Scrivimi fermo posta di Lubitsch”, spiega l’altro Maestro, Matty Libatique, direttore della fotografia) per una prima parte del film, leggiadra, fluida, spaziale, emozionale, che sembra girata dentro una nuvola. Sono gli anni del “giovane Bernstein”, talento fortunato che esordisce per caso con straordinario successo a soli 25 anni (incredibilmente in parallelo con l’altro enfant prodige Orson Welles, che esordisce anche lui in quegli anni alla stessa età), che pur tutto dentro le sue relazioni omosessuali trova, nell’attrice costaricano-cilena, una meravigliosa partner di una storia durata una vita, almeno fino al 1978, anno della scomparsa di Felicia.

Ma questa prima parte è girata come un musical, con i corpi perennemente in movimento (“abbiamo usato la Steadicam per quasi tutta la prima metà del film” racconta Libatique), tra un teatro, un concerto e un locale notturno, fino alla quiete in cui i due personaggi si ritrovano, su un prato, uno spalle all’altro, in una ricerca di una comunicazione che vada “oltre lo sguardo”…

È un Leonard Bernstein esuberante, umorale e magnificamente empatico, quello giovanile di Bradley Cooper, dentro il formato del cinema di altri tempi, la gradazione di grigi per le emozioni giovanili, in un universo emotivo/sentimentale che vede il proprio corpo al centro della tensione della storia. Un’esplosione di suoni, sentimenti e fughe possibili.

Maestro, di Bradley Cooper

Nella prigione

Questo straordinario musical in bianco e nero degli anni ‘30 del secolo scorso, a un certo punto si trasforma. La pellicola Kodak torna al colore e sembra trasmettere (è sempre Libatique che parla) “una percezione di consapevolezza della realtà, una sensazione da anni ’70 con quelle riprese ampie e lunghe”.

È il passaggio dall’esuberanza giovanile agli anni del successo mondiale, ma anche al periodo della prigione emotiva dentro il quale i personaggi sembrano essersi calati. L’allegria, la complicità, la vicinanza e l’intimità lasciano il campo a un mondo familiare artefatto e confuso, dove la libertà relazionale di Bernstein non regge più il gioco a due con Felicia. Ed il colore dei fotogrammi sembra raccogliere questa delusione, questa sfida infinita e perduta di una relazione eccezionale. Le avventure del Bernstein maturo non appaiono più leggere e divertenti, ma ripetitive e imbarazzanti. Con la stampa e le voci che arrivano fino alla figlia Jamie, di fronte al quale un ormai sconfessato Bernstein negherà ogni altra relazione.

La famiglia, il successo, i figli, tutto il grande contenitore sembra improvvisamente non funzionare più, mentre le libertà, sessuali e comportamentali degli anni ‘60 e ‘70, prendono il sopravvento. Fino al più classico pigiama, spazzolino e pantofole fuori dalla mia camera, con il quale Felicia mette fuori Leonard.

Ma non è possibile, separarsi per sempre. E i due ritroveranno una rinnovata relazione nella maturità, mentre Cooper/Bernstein si esibisce nella più clamorosa performance del film, con la lunga e incredibile direzione del concerto nella cattedrale di Ely a Londra, quasi un piccolo documentario sulle capacità acquisite dal regista nell’entrare dentro le pratiche virtuose del suo personaggio.

Nel dolore

Ma Bradley Cooper conosce e ama il mélo, come già potemmo apprezzare in A Star Is Born. E non c’è mélo senza il dolore, senza la sofferenza. Dopo quella dei cuori quella dei corpi. E nel capitolo finale entriamo dentro un mondo di tenerezza, di sottilissimo e dolcissimo sentimento perduto. La villa di Bernstein diventa il luogo della perdita, del dolore. Con quell’inquadratura dall’alto dell’altalena vuota e della figlia che corre in braccio a lui, in cerca di consolazione. E improvvisamente scopriamo che della vita di Leonard Bernstein, senza Felicia, non ce ne importa più niente. Il film sembra atterrare dolcemente in un territorio altrove, come se il lavoro del regista, alla ricerca delle emozioni nello spazio tra le persone, fosse ormai finito. Non si tratta di amore eterosessuale o omosessuale. Si tratta delle invisibili linee che legano gli esseri umani tra di loro. Il cinema diviene come una sorta di visore infrarossi per vedere queste tracce, queste meravigliose “scie d’amore” che gli esseri umani lasciano, a volte, dietro di sé.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5
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Il voto dei lettori
4.4 (10 voti)
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