Gli oceani sono i veri continenti, di Tommaso Santambrogio

Folgorante ritratto di una Cuba immobile, quasi atavica, dove nulla accade e in cui ogni sogno di speranza viene irresolubilmente relegato al reame della fantasia. Apertura delle Giornate degli Autori

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Possiamo interpretare Gli oceani sono i veri continenti come il ritratto di un paese in crisi. Di una Cuba atavica, fuori dal tempo, in cui nulla entra al di là di micro-storie e azioni ordinarie, sprofondate nella stasi della quotidianità. Le uniche variabili che arrivano a destabilizzare l’apatia del luogo sono quelle atmosferiche, con i temporali caraibici che si abbattono su una realtà che appare immersa in un presente/assente senza fine, risaltato dalla monocromia delle immagini in bianco e nero. E il motivo di questa rarefazione (estetica, esistenziale, emotiva) ci viene restituito dai continui notiziari che udiamo lungo tutto il corso del film: Cuba sta ad oggi attraversando la più grande crisi migratoria della sua travagliata storia, e si stima che negli ultimi due anni circa l’8% della popolazione abbia scelto di allontanarsi dal paese, per individuare in territori (culturalmente e fisicamente) lontani delle realtà che possano ospitare le loro fantasie di speranza. Anche perché, in mezzo all’impassibilità di immagini quiete e indifferenti, il paese cubano sembra aver perduto quella capacità di sognare che da sempre aveva contraddistinto il suo popolo.

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Per indagare le fratture contemporanee di un paese sul ciglio del declino, Santambrogio (qui al suo debutto nel lungometraggio) parte proprio dai suoi cittadini. Al punto che il cineasta non sente neanche il bisogno di rappresentare i grandi eventi socio-economici del presente: gli basta raccontare il contesto storico “dal basso”, dai movimenti nel vuoto di personaggi vivi e mai rassegnati, e dai voli di fantasia a cui quotidianamente affidano la loro sopravvivenza. E in questa realtà inerte, dove “tutto cambia perché nulla cambi” – come recita il celebre passaggio de Il gattopardo ricordato qui da uno dei protagonisti – ogni elemento o intento comunicativo sembra passare attraverso l’immagine della fuga. C’è chi, come la meravigliosa coppia di giovani artisti, si rifugia nell’arte teatrale; chi, come i piccoli Frank e Alain, evade dalla passività di San Antonio grazie all’immaginazione; oppure chi, come l’anziana Milagros, si tuffa a capofitto nel passato, leggendo e ri-leggendo quelle dolorose lettere che il defunto marito gli aveva inviato molti anni addietro con la speranza di ritornare dal fronte. Quasi come se, da questa prospettiva, il racconto de Gli oceani sono i veri continenti non potesse suggerire – se non addirittura immaginare – una realtà in cui sia possibile costruire un’esistenza stabile e appagante. A meno che, e la traiettoria di Edith non lascia dubbi a riguardo, tale percorso non abbia come destinazione finale l’emigrazione da quello statico mondo.

Ciò che restituisce profondità all’indagine sociologica di Gli oceani sono i veri continenti è proprio la distensione ritmica con cui il regista costruisce storie e ambienti. In piena continuità con i grandi esponenti dello slow cinema, e soprattutto con le logiche di alcune opere ultra-indipendenti di stampo thailandese, le crisi contemporanee del paese emergono sì dalla cristallizzazione del tempo, ma soprattutto dalla capacità del film di legare i fenomeni più problematici della modernità cubana agli sguardi e ai corpi dei protagonisti/cittadini. Qui le inquadrature in continuità, unite alla nitidezza della profondità di campo, consentono al racconto di evitare le trappole degli storicismi, restituendo costantemente ai personaggi un riferimento fisico della realtà in cui sono calati. È chiaro allora come il ritratto odierno dell’isola stia tutto qui: negli sfondi materici della cittadina di San Antonio, su cui si stagliano storie e vissuti profondamente umani. Solo così, sembra suggerire il regista, risulta possibile visualizzare le crisi (esterne) del paese e quelle (interne) di coloro che vi abitano. Rimanendo con i piedi ben piantati sul terreno.

È in questo contesto che la sequenza iniziale appare quasi come uno sviamento, una deviazione apparentemente disorganica rispetto alle logiche realiste del racconto. Le liturgie ritualistiche che attraversano la scena le donano certamente un tocco da realismo magico, in linea con il carattere favolistico in cui si iscrivono le fantasie dei due piccoli sognatori. Ma, a ben pensarci, Gli oceani sono i veri continenti ha poco a che fare con il profano, e tutto con il terreno. Ogni cosa sembra radicata ad un senso di privazione e soffocamento. Al punto che la fuga finale di Edith assume un valore quasi emblematico, e non solo per la radicalità con cui sintetizza i temi del film: la donna è infatti una marionettista; la sua espressione artistica così come la sua vita passa per il controllo, e l’unica possibilità che ha di capitalizzare questa fantasia è, appunto, evadere da quel mondo e portare la propria arte nelle capitali europee. E nulla, né gli affetti né la bellezza incontaminata della cittadina in cui è cresciuta, può dissuaderla da un pensiero che ha il peso delle grandi (e dolorose) verità: cioè che la sola speranza per molti cubani è l’estirpazione delle loro radici. A meno che non vogliano sprofondare nell’apatia di un mondo statico. Avvolto nella sua insondabile, ma pur sempre folgorante, (in)quietudine.

Regia: Tommaso Santambrogio
Interpreti: Edith Ybarra Clara, Alexander Diego, Frank Ernesto Lam, Alain Alfonso González, Milagros Llanes Martìnez, Lola Amores, Jhon Steven Baldriche, Osvaldo Doimeadiós, Joel Casanov80
Distribuzione: Fandango
Durata: 118′
Origine: Italia, Cuba, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
4.4 (5 voti)
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