El Conde, di Pablo Larraín

Dopo una prima mezz’ora che affascina per potenza visiva e allegorica, diventa il film più confuso e innocuo di Larraín pur confrontandosi con la figura centrale di tutto il suo cinema. Concorso.

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“Perché non riesco a morire?”, ripete ossessivamente un anziano vampiro immerso nelle tenebre della storia. E con lui non riescono a morire istinti ferini e autoritari, sete di potere e intollerabili crimini contro l’umanità, traumi individuali e collettivi. Insomma, chi tiene in vita tutto questo ancora oggi? Ecco, dopo la trilogia cilena sul pre e post colpo di Stato dell’11 settembre 1973, dopo le visionarie indagini sulle figure pubbliche e private di Pablo Neruda, Jackie Kennedy e Diana Spencer, Pablo Larraín arriva finalmente a confrontarsi in maniera diretta con il fantasma che preme da sempre nel fuori campo dei suoi film. Il generale Augusto Pinochet immaginato oggi come un vampiro pluricentenario nato simbolicamente dalle contro-rivoluzioni francesi (una letterale antitesi del secolo dei Lumi) e tenuto in vita come lato oscuro nelle democrazie dei due secoli successivi. Del resto, il cinema di Larraín continua ad essere attratto dai chiaroscuri del Novecento, dagli abissi del potere e dalle sue controverse figure, dalle ferite ancora aperte della storia e dalle loro ricadute negli individui comuni. La brutale dittatura militare in Cile, in particolare, diventa il palcoscenico di una memoria collettiva che va ancora elaborata e interrogata. Una spinta testimoniale che si sposa con l’archivio visivo del Novecento come culla delle immagini in movimento e del cinema, attraverso la riemersione dei suoi dispositivi, dei suoi supporti e formati (pensiamo solo a Post Mortem e No).

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E allora, El Conde è veramente il completamento di questo solido percorso autoriale? I toni sono subito chiari: dalla farsa sulle maschere del potere alla dark comedy familiare, dal fantasy realista all’horror splatter, chiamando più volte in appello umori e setting del più ambizioso cinema d’autore europeo (Dreyer, Tarkovskij, Murnau, per citare i più evidenti). In una villa decandente e spettrale su un’isola nel sud del Cile (non) vive segretamente il generale Pinochet. Un anziano vampiro in crisi esistenziale che ha deciso di morire ma è travolto dalla sua famiglia che brama di dividere l’eredità e da una misteriora (e religiosissima) contabile che lo deve aiutare a trovare un “finale”. Una voce fuori campo ci racconta questa storia in perfetto inglese (sarà forse Margaret Thatcher?) intavolando un discorso molto consapevole sulle ambiguità dei rapporti di potete tra democrazie, istituzioni religiose e totalitarismi nel Novecento come fossimo in un romanzo gotico con venature pulp. Il vampirismo diventa quindi una metafora sin troppo ovvia degli istinti ferini/autoritari che non riescono a morire e si alimentano nelle ambiguità del capitalismo contemporaneo creando mostri grotteschi pronti a riattivare la loro sete in maniera virale. Il bianco e nero plumbeo e le silhouette dei vampiri che si librano sul Cile del XXI secolo diventano il correlativo oggettivo di tutto questo.

Concludendo, Larraín concepisce un personaggio glaciale (“cercano il diavolo in me, ma io non ho nulla dentro, sono vuoto”) per poi immergerlo in un teatro degli orrori quotidiani che riconvoca i volti iconici dei suoi film (Alfredo Castro e Antonia Zegers su tutti). Ma dopo l’iniziale “gesto” cinematografico c’è qualcosa che si perde, sfuma, sfoca. Larraín cerca di operare una mediazione estetica ben più radicale rispetto al passato, con una prima mezz’ora che affascina per potenza visiva e spericolatezza allegorica. Alla lunga, però, questa complessità esibita ed estetizzante seda lo spettatore rendendo povero di idee (e confuso nelle traiettorie interpretative) il film che paradossalmente si confronta di più con la figura centrale del suo cinema. Ossia con il “negativo” di tutte le sue immagini. Insomma, Larraín ha fatto certamente di meglio in passato, ma questa poco riuscita ucronia vampiresca resterà comunque il film-matrice “inevitabile” con cui confrontare l’intera filmografia.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.6
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Il voto dei lettori
3 (7 voti)
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