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Nel dicembre del 2008, James Cameron si scagliò contro Tim Burton e in generale contro la pratica di girare film in 2D per poi “gonfiarli” a tre dimensioni in post-produzione: “non ha alcun senso”, affermò il regista di Avatar, “e inoltre rischia di arrestare lo sviluppo della tecnologia 3D”. Il produttore di Alice in Wonderland Richard D. Zanuck assicurò che lo spettatore non sarebbe stato in grado di percepire la differenza (un discorso analogo è stato fatto da Dan Fellman, presidente del comparto distribuzione domestica della Warner, a proposito del Clash of the Titans di Louis Leterrier), mentre il regista di Edward mani di forbice ha recentemente dichiarato, su Repubblica XL di marzo: “se puoi contare su attori molto bravi, allora devi dargli la possibilità di esprimersi e non riempirgli la faccia di puntini verdi”. Ha inoltre spiegato che “il 3D non è un ‘trucchetto’ per portare la gente al cinema, è piuttosto un modo per trasportare il pubblico dentro Wonderland”. E a proposito del perché abbia girato in 2D, “perché onestamente non vedo la differenza”. Così, però, ci sembra che si finisca per fraintendere la portata storica e semantica, di certo non solo “spaziale” ma anche “temporale”, dell’innovazione tridimensionale, la quale è per il digitale ciò che il colore fu per il cinema sonoro. Oltre a gettare un’ombra sulla riuscita del nuovo film burtoniano.

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