CANNES 57 – "De-Lovely" di Irwin Winkler

Kevin Kline è come sempre abile a destreggiarsi nelle inquietudini di un personaggio che vive continuamente sopra le righe e accetta su di sé il gioco dello specchio, ma il risultato soffre la freddezza programmata di uno sguardo legato all'ipotesi di partenza, una sceneggiatura pesante, il cotè ingombrante di uno spettacolo a tutti i costi ridondante

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Una biografia che diventa musical e che accoglie le istanze di una finzione esasperata e programmata. Questo è De-Lovely, scelto come chiusura del Festival di Cannes, deludente ultimo film di Irwin Winkler, autore che altrove aveva dato prove di un cinema carico di emozione e di sensibilità (si pensi a A prima vista e L'ultimo sogno) che qui sembra, invece, imprigionato in uno schema che blocca i personaggi e rallenta il fluire dinamico dell'azione. La vita del grande musicista Cole Porter attraverso i suoi successi e le sue indimenticabili canzoni. Una vita densa e legata attimo dopo attimo dove ogni cosa nasce e si completa nella musica, o meglio, nel processo creativo con tutti i contrasti e le contraddizioni ad esso connesse. Un lungo, frammentato flashback, in cui lo stesso musicista, ormai anziano, vede scorrere sul palcoscenico la sua stessa esistenza, messa in scena, appunto, come fosse uno dei tanti spettacoli di successo da lui scritti. Spettatore di se stesso, osserva e rimpiange il passato, con gli occhi malinconici e tristi di chi ancora non ha trovato un proprio equilibrio e vive nell'esasperata ricerca di qualcosa ancora da svelare. Kevin Kline è come sempre abile a destreggiarsi nelle inquietudini di un personaggio che vive continuamente sopra le righe, nell'eccitazione di una quotidiana ebbrezza. Irrequieto ed elegante è il suo atteggiamento, quasi astratto da se stesso, proprio come dettano le regole del musical (la frontalitá e il dinamismo, la plasticitá anche eccessiva del corpo in dinamica relazione con lo spazio duplice della finzione). Accetta su di sé  il gioco dello specchio, ma il risultato soffre la freddezza programmata di uno sguardo legato all'ipotesi di partenza, una sceneggiatura pesante, il coté ingombrante di uno spettacolo a tutti i costi ridondante. E non serve neppure la musica a far volare una storia che avrebbe potuto giocare con libertà negli spiragli tra realtà e finzione: la scelta "teatrale" impoverisce il racconto, ferma l'immaginazione sulla soglia del possibile, si evitano accuratamente gli estremi della passione che, al contrario, è materia tanto insistita nei dialoghi, non ci sono i chiaroscuri dell'ambiguitá di cui, invece, solo si parla.

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A far brillare De-Lovely non sono bastati neppure i camei di musicisti della scena contemporanea. L'ironia di Robbie Williams, l'apparizione di Alanis Morissette, l'eleganza di Natalie Cole restano isolati in un contesto che mai riesce ad uscire dalla prigione che si è creato.

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