CANNES 57 – Il primo urlo dal Giappone

"Nobody Knows" del giapponese Kore-Eda Hirokazu rappresenta la prima, grande, vera folgorazione di questo festival. Schematicamente didattico appare invece il documentario in video "10 on Ten" di Abbas Kiarostami e follemente vuoto "Bienvenue en Suisse" di Léa Fazer

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Dopo l'apertura con La mala educacion di Pedro Almodóvar, la 57° edizione del Festival di Cannes apre ufficialmente le sue sezioni. Malgrado le minacce di sciopero da parte dei lavoratori dello spettacolo – con il relativo rischio del blocco delle pellicole sulla Croisette – e i controlli sempre più intensificati prima dell'entrata in sala, la manifestazione ha preso il via con un programma che, almeno sulla carta, appare ben più ricco di quello della scorsa edizione.

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"Un certain regard" ha aperto i battenti con 10 on Ten di Abbas Kiarostami (che sarà anche presente in concorso con Five), in cui il regista iranniano intrattiene una vera e propria lezione teorica sul proprio metodo. Suddiviso in 10 capitoli ("ten", appunto), si vede inquadrato soltanto Kiarostami con un'automobile che ripercorre alcuni luoghi presenti nei suoi film (come l'albero de Il sapore della ciliegia) mentre presenta allo spettatore alcuni elementi propri del suo cinema: la scelta del soggetto, l'elaborazione quasi "rosselliniana della sceneggiatura" (che rappresenta quasi un canovaccio e non un qualcosa di immodificabile), la predilezione per gli attori non professionisti e l'uso del digitale, utilizzato in maniera più sistematica nel finale de Il sapore della cilegia, nel documentario ABC Africa e in Ten. A questa interessante lezione verbale – lontana anni luce comunque dalle "lezioni" di Rossellini – si alternano spezzoni dei tre film che servono quasi da supporto visivo. Parlando a proposito di Ten, Kiarostami ha sostenuto che nel film voleva eliminare il proprio sguardo critico per lasciare libero il punto di vista dello spettatore. Tesi questa, che appare abbastanza discutibile, perché rispetto all'opera precedente del cineasta iraniano, si ha invece proprio l'impressione che lui abbia imposto il proprio punto di vista sia a livello di scelta persistente del soggetto sia per quanto riguarda la posizione della macchina da presa che segue invece precise traiettorie e angolazione. Un documentario-saggio, girato in video, forse utile da ascoltare ma monotono e schematico nella sua realizzazione. L'altro film presentato nella sezione è Bienvenue en Suisse diretto e realizzato dalla Svizzera Léa Fazer. Il film vede al centro della vicenda Thierry che parte dalla Francia per la Svizzera assieme a sua moglie Sophie in occasione dei funerali della nonna. Lì si trova davanti a un'eredità inattesa, che gli viene rilasciata dai suoi parenti solo se mostra di farne buon uso.  Si parlava di Bienvenue en Suisse come di un'opera inconsapevolmente folle, che utilizza pure un cast interessante (Vincent Perez, Emmanuelle Devos, Denis Podalydes) per esercitare un gioco stantio tra le abitudini dei francesi e la precisione degli svizzeri, con un'esibizione di luoghi comuni non solo narrativi ma soprattutto visivi, con le immagini delle praterie, delle mucche che fanno il latte, e delle strade disegnate in una forma quasi cartoon che fanno credere che dietro questo strampalato progetto ci sia forse la consapevolezza di realizzare un film al limite. Resta però che Bienvenue en Suisse non cattura, non incuriosisce ma soprattutto non diverte.

La prima vera, grande, folgorazione, arriva dal Giappone. Lui si chiama Kore-Eda Hirokazu, ha 42 anni ed ha già realizzato quattro lungometrtaggi. In Italia non lo conosce nessuno perchè nessun film del cineasta nipponico è uscito in sala, ma Kore-Eda si era già fatto notare al festival di Venezia con Maborosi (1995) e poi si è confermato cineasta di talento con After Life (1999). Nobody Knows (questo è il titolo internazionale di Daremo Shiranai) vede protagonisti una madre che va a vivere con i suoi quattro figli in un appartamento in affitto a Tokyo. La donna, che ha avuto i bambini da uomini differenti, è spesso fuori e lascia che ad occuparsene sia il figlio maggiore, Akira. Un giorno però la donna non si vede più.  Dentro Nobody Knows si avverte un preciso taglio documentario che mostra quasi una mutazione dei corpi nell'arco delle quattro stagioni; il film infatti comincia nella stagione autunnale e si conclude in quella estiva. Ma c'è anche una totale aderenza alla quotidianità nella capacità di Kore-Eda di mostrare anche un'intima realtà economica fatta di occasionale presenza di denaro lasciato dalla madre, di piccoli furti al supermercato, di provvisoria ricerca degli spicci nella macchina delle bibite e, infine, nell'impossibilità dei ragazzini di poter pagare l'acqua e la luce. Kore-Eda sembra chiudersi con i suoi protagonisti in un mondo circoscritto, totalmente impermeabile all'esterno. Nobody Knows è un'opera fatta prevalentemente di piani fissi, la cui successione, nel corso del tempo, genera conflitti. L'abitazione diventa così non uno spazio, ma il set principale, il luogo dal quale può uscire soltanto Akira (tutti e quattro, su decisione della madre, non frequentano la scuola) e sul quale gli stessi proprietari hanno una presenza estremamente intermittente. Ci sono le immagini di Tokyo dall'alto, di una città che sembra essere continuamente tagliata (dalla presenza, per esempio, di una metropolitana che si muove) tagliando e ferendo un film che trasmette efficacemente delle fragilità multiple con uno stile essenziale, dove le azioni non vengono mai concluse ma appena accennate (l'immagine della sorella più piccola che cade dalla sedia). Un'opera apparentemente fenomenologica che invece si apre a squarci di coinvolgente lirismo come nella corsa quasi truffautiana dei giovanissimi protagonisti sulle scale o nella straordinaria scena di Akira che con la sua amica – una ragazza che si unisce a loro dopo aver continuato a non frequentare la scuola – va a vedere gli aerei e a seppellire la sorella più piccola, accidentalmente deceduta sulle note di una canzone sruggente,

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