CANNES 65 – “Holy Motors”, di Leos Carax (Concorso)


Leos Carax torna a girare dopo 12 anni con il suo attore feticcio Denis Lavant e tutto il circo di citazioni colte, letterarie, visive, figurative, musicali. Stargli dietro è impossibile, proprio come pedinare Monsieur Oscar che si fa assassino, mendicante, direttore di banca, padre di famiglia, creatura disumana. Holy Motors nasce dalla pulsione del regista a mostrare più progetti intrecciati, come in una “science-fiction” che preannuncia l’estinzione della carne, non prima di essere maciullata

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Rimandando all’esauriente e dettagliato “articolo sul perché ancora (ri)vedere”, già pubblicato in questa rivista, qualche ora prima della prima al festival, ancor prima che lo sguardo si affettasse, nella notte di Parigi, negli incroci demoniaci, sulla giostra dei bassifondi, sul precipizio dell’io, Leos Carax torna a girare dopo 12 anni con il suo attore feticcio Denis Lavant  e tutto il circo di citazioni colte, letterarie, visive, figurative, musicali. Stargli dietro è impossibile, proprio come pedinare Monsieur Oscar che si fa assassino, mendicante, direttore di banca, padre di famiglia, creatura disumana. Trovi qualche frammento… Lui a lei: “Jean, c’è qualcosa che tu non sai”; lei: “Su di te?”; lui: “Su di noi”. Monsieur MERDE: “Aglouglia! Alk tsuet tsuet kerotut xeuhhi-vi aass!”. Linguaggio incomprensibile senza una chiave d’accesso e proprio nella prima scena, ci si trova di faccia ad una platea cinematografica addormentata e ancora al buio, come fosse il riflesso di una condizione collettiva condivisa, spregiudicatamente empatica. È Carax stesso che irrompe, abbattendo il muro di una camera a ore, violando il cinema, attraversando il corridoio del suo prologo, della sua speciale “ouverture”, verso l’ignoto. Dormono o sono tutti morti in sala? Quante facce leggermente inclinate, quelle che non vediamo mai, anche quando si è in prima fila e provi a voltarti, come nella scena de La folla di King Vidor.

 

Ma quella stessa macchina, nel 1928, quando ancora andava a nitrato, sorvola la folla dei presenti e si “riaccende” sullo schermo, a convertire l’argento chimico in sogni d’oro. “C’è nel mio appartamento una porta a cui non avevo mai fatto caso” , oltrepassandola bisogna lasciare il futuro come merita: svegliandolo prima del tempo, Carax ha rischiato un presente assonnato. Carax in pigiama trova un passaggio segreto, attraversando una carta da parati alberata, tra le poche cose vive e vegete del suo cinema, imbalsamato e meravigliosamente irraggiungibile. Holy Motors nasce dalla pulsione del regista a mostrare più progetti intrecciati, probabilmente affascinato dalla “science-fiction”, che preannuncia l’estinzione della carne, tra limousine che dialogano, parcheggiate e desuete, perché belle di fuori, ma fredde internamente, come il più anonimo degli alberghi. Si scorre da un incubo all’altro, di stanza in stanza, da quadri a quadri, ai confini del possibile umano. “Motion capture” che trama alla ricerca di contatti, del gesto sublime, perdendosi nella fobia dell’altro. Denis Lavant (si) trucca e strucca, come Chaplin dei “tempi moderni”, è il Kerouac maledetto, lo scarto (minimo) tra la bestia e l’uomo, la scimmia e il cyber, pendolo oscillante di malattia e morte: “Voi volete questo, che tutti diventino paranoici?”; “Voi non lo siete già? Io si, molto. Ho sempre pensato per esempio che un giorno dovrò morire”. “La vita è migliore Léa, perché nella vita c’è l’amore. La morte è buona, ma l’amore non lo è”. Il cinema è una tortura. L’influenza meccanica delle fonti intellettuali di Carax, più che di tipo meccanico, bisognerà pensarle come una profonda affinità destinale. Non c’è però ancora forza plastica. In Carax (come in Denis Lavant) vita reale e scrittura sembrano porsi in un rapporto di reciproca interruzione, che assume i tratti di una peculiare dialettica in virtù della quale l’immagine si nutre della vita, o meglio, della vita non vissuta, delle esistenze altrui e delle occasioni mancate.

 

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Ma, di nuovo, il cinema, per poter continuare indisturbato e incontrollato la propria cavalcata solitaria, deve porsi al riparo della vita presente, che in ogni momento può influire sulla rappresentazione e scompaginarne i contorni. Carax persegue questa ossessione: è come se vita e cinema, pur dipendendo l'una dall'altro (di cos'altro ha mai parlato Carax, se non con un'ostinazione maniacale, di se stesso?), come preda e cacciatore fuggono l'una dall'altro. Viene in mente il fallimento parziale, in tal senso di Walter Salles, con On The Road, e la visione tardo(e)avveniristica di Dario Argento in Dracula 3D, “griffittiano” inconsapevole, che fonde interni ed esterni, nel tumulto di un accademismo retrò, e quindi rivoluzionario. Immersi totalmente nel mondo dei redivivi, in cui il cinema è anche la ricerca di verità. Ma questa ricerca deve passare attraverso la cancellazione dell'Io. È come un cerchio che si restringe di continuo intorno all’autore. Alla fine sarà necessario accertarsi, via via che lo spazio si è ridotto, di non essere andati a nascondersi da qualche parte. Restringere sempre di più il primo cerchio e andare a vedere se non ci si è nascosti da qualche parte, guardando senza però fissare davvero l'oggetto dell'osservazione. Così il direttore miliardario Monsieur Oscar esce di casa per andare a lavoro e ritorna mestamente tra quattro mura, padre di famiglia comune che ritrova la sua modesta esistenza e la compagna tra i primati. E la parabola è compiuta.      

 

             

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    Un commento

    • “Voi volete questo, che tutti diventino paranoici?”; “Voi non lo siete già?".
      A leggere questo bel pezzo, sembra puro Carax, con tutti i suoi pregi e difetti. oh, quanto lo amerò, anzi è la mia Palma d'Oro sulla fiducia 🙂