CANNES 67 – Bird People, di Pascale Ferran (Un Certain Regard)

Un film che sembra ostinatamente cogliere solo gli scarti di narrazione tradizionale, configurando un tempo sublime e superfluo, ossia la stasi sentimentale che è il tempo del profondo cambiamento. Un film sanamente sorprendente, certamente sbilanciato e a tratti involontariamente comico, ma che spiazza lo spettatore spiccando letteralmente il volo come le sue bird people

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È un’originale e affascinante oggetto filmico questo Bird People. Firmato da una altrettanto misteriosa cineasta francese, solo pochi lungometraggi in una carriera iniziata negli anni ’80, e già sceneggiatrice per Arnauld Deplechin e Mathieu Amalric. La traccia narrativa, come in molto cinema francesecontemporaneo, è veramente esilissima con una prima sequenza che ha quasi un sapore wendersiano: ci si immerge nella città di Parigi, per le strade, nella metro, ascoltando i pensieri o le musiche dei passanti e poi soffermandosi improvvisamente su due persone a caso. Due delle tante potenziali strade percorribili, che da ora in poi saranno protagoniste del nostro film: un americano che appena arrivato a Parigi mette in profonda crisi il proprio lavoro e i propri affetti incontrando l’alterità europea (come in un odierno Viaggio a Parigi rosselliniano); e poi la giovane cameriera dell’albergo dove lui alloggia, vicino all’aeroporto, che da ostinata osservatrice dei comportamenti altrui si trasforma letteralmente in uccello, volatile, puro sguardo nel vento oltre ogni dolore.

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Questo è un film che sembra ostinatamente cogliere solo gli scarti di narrazione tradizionale, configurando un tempo sublime e superfluo, ossia la stasi sentimentale che è il tempo del profondo cambiamento. Il loro mondo, le loro relazioni, sono sempre tenute in fuori campo, confinate su uno schermo di computer o di cellulare, lasciando a noi solo la confusa scia emotiva. I nuovi media, allora, assurgono a terreno privilegiato dell’odierna solitudine urbana, dove persino la conversazione più importante della propria vita (la decisione di una rottura matrimoniale) la si prende guardandosi negli occhi filtrati da uno schermo neutro. A un oceano, fisico ed emotivo, di distanza.

Pascale Ferran è una cineasta chiaramente legata a un’idea di cinema che dal nouveau roman porta alle coalescenze temporali del primo Resnais. Solo che nel 2014 questi fortissimi e inarrivabili referenti vengono enormemente semplificati negli assunti, riuscendo a raggiungere una sorprendente leggerezza di tono. Un film che si permette di rendere la protagonista Audry letteralmente un passerotto, che vola sopra i suoi dilemmi per guardarli da un altro punto di vista e poi tornare giù. Nuovo punto di vista che è palesemente quello del cinema: il volo è sempre in soggettiva, le finestre dell’albergo diventano schermi, l’aeroporto è il luogo del “movimento” per eccellenza. E allora – anche a prescindere da ogni giudizio critico – questo è un film sanamente sorprendente, certamente sbilanciato e a tratti involontariamente comico, ma che spiazza lo spettatore immergendolo per due ore in un mondo altro: la mezzora in volo di Audry è una macrosequenza apparentemente insensata eppure incredibilmente poetica nella sua platealità. La cosa che salva, sempre ecomunque, la Ferran è proprio questa totale sincerità di approccio: una commovente e rigenerante fiducia nel mezzo cinema.

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