CANNES 67 – Still the Water, di Naomi Kawase (Concorso)

still the water
Prima e dopo il 2011. Forse dovremmo indicare un solco nel cinema dell’immensa Naomi Kawase. Dopo il terribile terremoto giapponese, la regista, ancora di più, ha preso coscienza della fragile bellezza della terra. Nei fondali dell’anima, il respiro scende sempre più in fondo, trovando ancora la forza per risalire, guardando al cielo con occhi diversi. E' pace, nella visionaria rarefazione occidentale

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still the waterPrima e dopo il 2011. Forse dovremmo indicare un solco nel cinema dell’immensa Naomi Kawase. Dopo il devastante terremoto giapponese, la regista, ancora di più, ha preso coscienza della fragile bellezza della terra. Di tutti quei “piccoli” fenomeni naturali capaci di sconvolgere la nostra vita, perché incapaci di liberarci dell’antropocentrismo, di abbandonare il mentalismo che colloca l'uomo al centro della natura, di abbandonare gli antichi modelli tolemaici che pongono la Terra al centro dell'universo. Ma nel negare questa illusione antropocentrica non si compie un'operazione di svilimento della nostra specie. Al contrario, si coglie la bellezza dell'attività conoscitiva che si produce negli umani e negli altri corpi viventi, tutti insieme indaffarati nelle loro specifiche azioni di adattamento all'ambiente che li ospita. L'uomo è un animale metafisico, il quale vorrebbe che l'universo esistesse solo per lui, ma l'universo lo ignora, e l'uomo si consola di questa indifferenza popolando lo spazio di Dei, Dei fatti a sua immagine. Poiché tutti noi pensiamo che il nostro essere uomini sia qualcosa che ci mette al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra, per forza dobbiamo anche pensare che siamo stati fatti ad immagine di qualcosa ancora più importante di noi.

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Still the Water procede in questa direzione, fenomenale evocazione del “segreto legame”, arcane corrispondenze che intercorrono fra segni linguistici e “figurazioni” che abitano l'arte tutta. Così, nella suadente proliferazione di immagini riflesse, nel cuore di una parola dipinta, sulla soglia di un estetico convegno d'amore, icone grafiche e fascinose immagini liriche, schiudono nell'arte nuovi, e comunque diversi, esiti creativi.

 

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still the waterGli elementi archetipici, Terra, aria, acqua, avvicendandosi nell'immaginazione filmica, non fanno che giungere "felicemente" al cuore della seduzione eidetica, alla “sorgente dell’abbondanza”, oltre l’oceano in tempesta. Fascinazione iconografica tra parola e colore; viaggio sui generis nella fantasmagorica polifonia delle immagini. Tutto questo, in fondo, è stato sempre presente nelle opere della regista giapponese, assenza come vuoto da scavare, da inseguire, da difendere: quando la macchina da presa si muove parecchio e nervosamente (questa è una presenza) è perché segue i movimenti dei sentimenti dei personaggi. Quando si immobilizza in lunghe inquadrature statiche è come se uno sguardo divino si incarnasse nella scena. Come se un ente supremo della gratuità creativa guardasse dall'esterno le cose degli umani. Come se lo stesso terzo occhio volesse mostrare le tracce lasciate sul cammino percorso. Allora più importante che essere abbracciati da qualcuno sono le parole, pronunciate un tempo, che hanno reso possibile quell'abbraccio. Movimenti ascendenti e discendenti dell'anima, confusi e disperati. Il rifiuto del passato è discendente, l'interiorizzazione della colpa ascendente. Come un componimento "haiku", è un gioiello, una nenia che l'anima consola: sillabe sussurrate alle immagini, delicata e quasi insostenibile leggerezza di una carezza, di corpi giovani avviluppati nel bosco. Dal 1997 (quando vinse la Camera d’or, con Moe nu Suzaku) ad oggi, Naomi Kawase ha sempre inseguito i suoi ricordi di gioventù, ha sempre scavato profondamente alla ricerca delle sue radici, perché non ha mai smesso di completare il suo percorso di formazione.

 

still the waterStill the Water è ambientato nell’isola subtropicale di Amami-Oshima (da cui provengono gli antenati della regista), in cui due giovani ragazzi cercano la propria strada verso l’età adulta. Kaito, con i genitori separati (la Kawase è cresciuta senza padre), scopre sulla spiaggia un cadavere annegato e solo più tardi su quell’uomo senza vita si sveleranno i legami che in qualche modo li uniscono. Kyoko è una ragazza che non ha paura di niente ma non riesce a comprendere la morte che le sta portando via la madre ammalata da tempo. Il pescatore saggio sgozza un agnello che lentamente spira, per dimostrare che la separazione è solo un momento nell’eterno fluire del tempo. L’oceano in tempesta, il vento che spira prepotentemente, la quiete dopo la tempesta, il sole che risplende tra alberi secolari: riconoscere il mondo per scongiurare l’assassinio delle divinità (un escavatore che disbosca),  nuotando senza veli nei fondali dell’animo umano, vago ed imprevedibile. C’è una scena che rappresenta l’apoteosi dell’epicità: gli ultimi istanti della madre di Kyoko, ormai giunta alla fine del viaggio terreno. Al capezzale parenti e vicini di casa. Si suona lo shamisen per la gioia del suo cuore ed il corpo trova la forza di prolungare, quasi per l’eternità, la permanenza.

Gli occhi sono sempre volti al cielo, anche allo spirare, in una morte apparente. Cinema memorabilmente in pace con la visionarietà rarefatta occidentale (Malick è il primo indiziato), in cui il respiro scende sempre più in fondo, trovando ancora la forza per risalire, guardando al cielo con occhi diversi. Le corse in bicicletta dei due giovani innamorati è un inno al tormento e alla gioia, e nuove e sempre più alte “vagues”, d’asfalto e acqua, si aprono dinanzi a noi, come in una primordiale e debordante scintilla di eternità. La voce della natura racconta un’esperienza, una storia vissuta, una storia sofferta, una storia che rimarrà soltanto un ricordo, il punto terso e puro più lontano all’orizzonte.      

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