#Cannes2018 – Dead Souls, di Wang Bing

Un’esperienza filmica di rara potenza, lunga più di 8 ore, che si nutre del (nostro) tempo per farsi sguardo autentico su uno dei più traumatici “rimossi” della memoria cinese novecentesca

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In un recente documentario italiano – Uno sguardo sulla terra di Peter Marcias – Wang Bing esplicita con sensazionale lucidità la sua idea di messa in scena: lo “stile” è un falso problema, dice, perché il cinema dipende unicamente dallo sguardo che anima la macchina da presa. Se il regista è autentico il film sarà un’esperienza autentica per lo spettatore, senza nessun’altra mediazione particolare. Ecco allora: in questo Dead Souls, film-fiume e film-summa, il regista cinese azzera ancora una volta ogni stilema codificato del “documentario” per ricercare una radicale purezza di sguardo che paradossalmente amplifichi la sua soggettività. Insomma qui la materia è talmente tanto delicata e complessa che il cinema non può far altro che “esserci”, limitandosi solo a testimoniare: le anime in questione sono quelle dei sopravvissuti (e dei dimenticati) dei campi di rieducazione per oppositori in era maoista (precisamente tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 in Cina, in seguito a un nuovo piano di politica economica che imponeva una più serrata propaganda) nei quali morirono migliaia di cosiddetti “controrivoluzionari”. Wang Bing, allora, riprende e amplifica gli spettri già sondati nel suo unico film di finzione (The Ditch) montando materiale girato tra il 2005 e il 2017: Dead Souls fa parlare i suoi anziani testimoni rispettandone i tempi e gli stati d’animo, favorendo quindi un processo memoriale che si dipana davanti ai nostri occhi mediato solo dalla piccola videocamera del regista. I vari supporti, i vari formati e i vari dispositivi di ripresa che mutano durante il decennio, poi, ci fanno pecepire il tempo nella pelle delle immagini, amplificando i difetti della bassa definizione per lasciare spazio solo al dettaglio (sentimentale) dei soggetti intervistati. E allora di volto in volto, di ruga in ruga, si instaura una tensione alla Claude Lanzmann in questo rimanere eticamente ancorati alla testimonianza orale come riconfigurazione di un trauma storico e privato. Il cinema, pertanto, si incarica di strappare le anime all’oblio della memoria instaurando un raccordo tra storie private e Storia del Novecento tentando di configurare un lento processo di autenticazione dei ricordi.

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Di cosa si parla esattamente? Questi racconti creano continue connessioni tra la morte, la vita e il cibo. Un professore di filosofia internato alla fine degli anni ’50 diventa aiuto cuoco nel campo, si rende conto che una razione in più di cibo concessa di nascosto può salvare la vita a qualcuno e forse mettere in pericolo la propria. Ecco: questi racconti di bisogni primari – a volte pieni di dettagli atroci, accomunando molte altre memorie di “campi” novecenteschi – disegnando un cieco furore ideologico che azzera ogni discorso politico e eleva la riflessione alla nuda vita. Wang Bing è attento solo a quello: non orchestra un dispositivo ideologico contrario che estetizzi (e anestetizzi) le riflessioni odierne, ma semplicemente mostra e si impasta con le cose. Dal lungo e dolorosissimo funerale di un reduce sepolto su una montagna; sino a una intera macrosequenza nell’area desertica dove 50 anni fa era situato un campo di rieducazione. Agghiaccianti fosse comuni che restituiscono spettrali ossari a cielo aperto, in un paesaggio post-apocaliticco dove pochi pastori fanno pascolare gli animali. E in quel deserto Wang Bing cammina, si stanca, ci mostra i segni del passato e rende affannosa l’immagine presente, con l’inquadratura che si impasta alla polvere come nel bellissimo Three Sisters. Tutto questo ha anche ha qualcosa di astratto e metafisico nella sua radicale contestualizzazione spaziale e temporale. Il cinema di Bing riesce in entrambe le cose: testimoniare un rimosso traumatico tra i più atroci e nel contempo universalizzare la riflessione coinvolgendo lo spettatore in un livello primo di analisi sulla vita e sulle patologie di ogni comunità.

Insomma: un’esperienza filmica di rara potenza, che si nutre del (nostro) tempo per farsi sguardo autentico sulle cose. Nasce ora una suggestione tra le immagini: sulla libreria di un vecchio reduce intervistato nel 2017 e sul davanzale di una novantenne intervistata nel 2006, casulamente, notiamo un identico modellino di Tour Eiffel. Viene in mente, come un raccordo fulmineo, il capolavoro The World di Jia Zhangke, con la sua fuga dai simulacri oltre lo spettrale parco giochi della Storia e oltre ogni confine ideologico che esso impone. Ecco: da due punti di vista molto diversi Jia e Wang stanno segnando indelebilmente una straordinaria stagione di cinema cinese (la cosiddetta sesta generazione) lasciandoci sempre più attoniti rispetto a una “ritrovata” potenza che il cinema può rivendicare anche nel XXI secolo. Si rimane in silenzio dopo la fine di queste 8 ore di proiezione… le anime (strappate alla) morte hanno fatto vivere la nostra esperienza di spettatori ben oltre l’uscita dalla sala.

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