#Cannes68 – Peace to Us in Our Dreams, di Sharunas Bartas

Presentato in Quinzaine des Réalisateurs il nuovo film del cineasta lituano Sharunas Bartas. Un film sul tempo e sulla perdita del tempo, sulla sospensione e sull’esilio esistenziale

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Perdersi nella foresta. Sta diventando un motivo ricorrente di questo sessantottesimo festival di Cannes. Allontanarsi dalla “civiltà” per smarrire le coordinate fisiche e di sguardo: dalla foresta dell’anima che inghiotte la morte nel film di Van Sant, a quella  ferina e animale nel dopo-storia del discutibile film di Lanthimos, per arrivare a questa liminale esperienza del “girare” a vuoto che ci fa vivere di nuovo Sharunas Bartas. Il grande cineasta lituano segue ormai come un ombra i suoi personaggi alla deriva, non tenta più nemmeno appigli di genere (come nello straordinario noir astratto del precedente Indigène d’Eurasie), in un cinema sempre più alien(at)o e confinato nella potentissima (non)espressione del Bartas attore. Lo spunto è semplicissimo, come al solito: un uomo (lo stesso regista), sua figlia e la sua giovane fidanzata violinista decidono di isolarsi per un week end in campagna. Prima di partire, però, il padre mostra un vecchio filmato alla figlia. Appare il primo piano di una donna, probabilmente la madre, e noi riconosciamo immediatamente il volto di Katja Golubeva. Musa e compagna di Sharunas Bartas morta qualche anno fa. Ecco: un corticircuito vita/immagine inaugura il film e configura per pochi frame l’intima memoria emotiva che oltrepassa lo schermo. Una memoria che erompe dal confilitto dialettico tra immagini e che precede, non a caso, la liminale perdita nel bosco.

Si arriva nella casa in campagna, vicino a un lago. Il nostro sguardo è perso in suggestioni oniriche, dialoghi surreali, nebbie tarkowskiane, istinti primari, personaggi prodotti dal bosco come archetipi ancestrali. Insomma questo film è la radicalizzazione (definitiva) di un percorso estetico e umano che il regista-attore porta avanti da anni, a tratti innegabilmente probante, a tratti (in)comprensibilmente difficile da seguire, ma terribilimente dentro le emozioni prime che insegue. Ammantato da un fascino quasi arcaico che sfonda l’immagine e rende straordinariamente ambigua l’esperienza dello spettatore.

Bartas (ricordando soprattutto Few of Us) si conferma cineasta di pura percezione che gli occhi non smettono mai di condensare. Lasciandoci soli con poche parole sparse nel vento che raccontano di un dolore esistenziale faticosamente sublimato nelle chiacchere, nelle mangiate, nelle nuotate, nelle pericolose passeggiate. Insomma la sospensione è l’unico tempo e il vuoto è l’unico spazio che Bartas intende filmare. Un film sul tempo e sulla perdita del tempo, sull’impossibilità di tracciare una Storia perché se ne sono perse irrimediabilmente le coordinate (in quel video iniziale?), quindi cinema senza-film, nudo e crudo, ma ancora capace di “sognare” una pace nel dopo. Peace to us in our dreams.

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