C’era una volta a Roma. Intervista a Manuel de Teffé

In occasione della presentazione del suo libro presso il Cinema Anteo di Milano, abbiamo incontrato Manuel de Teffé, figlio di Antonio de Teffé, storico attore dell’epopea del Western all’italiana

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Nel settembre del 2007 durante la retrospettiva organizzata da Quentin Tarantino al Festival di Venezia sul nostro western ebbi l’onore di presentare al pubblico Una lunga fila di croci del regista Sergio Garrone presente in sala, e vedere per la prima volta mio padre sul grande schermo. Da quel momento, iniziai lentamente a rimettere insieme uno stormo di memorie fantasmagoriche legate alla nascita di questo filone cinematografico.”

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Manuel de Teffé, regista, scrittore e docente di storia del cinema all’accademia cinematografica Dbima di Parigi, ci restituisce il ritratto nostalgico irresistibile dell’epopea cinematografica dello Spaghetti western. Il suo primo romanzo C’era una volta a Roma è un elaborato e sincero flusso di coscienza narrativo ispirato alle vicende artistiche e familiari di suo padre, Antonio de Teffé von Hoonholtz, attore romano di origine prussiana che, “letteralmente” a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, fu protagonista di ben 27 film western con il nome d’arte di Anthony Steffen. Basti pensare a film come Django il bastardo, Pochi dollari per Django, Sette Dollari sul Rosso, Arriva Sabata, Apocalisse Joe, Un treno per Durango, Una lunga fila di croci.

C’era una volta a Roma sono le memorie trasposte di una precisa epoca storica: siamo nella Roma del 1965, gli anni della Dolce Vita, delle tensioni politiche (le proteste contro la guerra in Vietnam) che porteranno prima al ’68 e poi agli anni di piombo. In quel marasma collettivo ecco che arriva l’improbabile quanto sfacciata rivoluzione dello Spaghetti Western. Una novità assoluta destinata a lasciare un segno indelebile all’interno della storia del cinema. In occasione della presentazione del suo libro presso il Palazzo del Cinema Anteo di Milano, abbiamo incontrato lo scrittore Manuel de Teffé. Ecco che cosa ci ha raccontato:

Partirei dall’interessante prefazione del suo romanzo. Lei ci racconta che in occasione della presentazione del film Una lunga fila di croci di Sergio Garrone, per la prima volta ha avuto la possibilità di vedere suo padre sul grande schermo. Ci può raccontare qualcosa in più sulla genesi del suo romanzo e perché ha scelto proprio il romanzo come genere letterario di partenza?

Non è un romanzo che avevo pensato di scrivere. Mi è esploso inaspettatamente tra le mani durante il lockdown. Pre-pandemia stavo lavorando con un produttore italiano, Carlo Macchitella, ad un film western. A causa del covid il progetto è rimasto in standby e siccome avevo già iniziato a collezionare tantissime memorie legate alla nascita del Western all’italiana è esplosa in me la voglia di narrare la mia versione dei fatti. Anche perché, in un certo qual modo, mi ritengo depositario di quel preciso momento storico, di quel momento in cui degli italiani hanno deciso di voler realizzare dei film Western. Un po’ come se degli Eschimesi si fossero messi a vendere nel mondo la pizza margherita… Ho iniziato a riconfezionare tutte le avventure di mio padre e di mia madre e le ho messe nero su bianco in questo romanzo che non è una biografia, questo ci tengo a dirlo, ma la realtà trasfigurata. Ritornando a quello che dico nella mia prefazione, anch’io, come certa critica militante di quegli anni, ho vissuto per anni con l’idea che gli Spaghetti Western fossero dei B-movie. Poi, quando venni chiamato a presentare Una lunga fila di croci, vedendo per la prima volta sul grande schermo mio padre, riuscì a capirlo artisticamente, capii l’artista, capii che grande attore era mio padre e che grande film stavo vedendo. Un capolavoro con una sceneggiatura incredibile, un montaggio e delle musiche sensazionali.  Ebbi anche l’onore di conoscere il regista, Sergio Garrone. Fu un pomeriggio indimenticabile e di lì a poco iniziai a collezionare una serie di memorie, metterle insieme, rendendomi conto di essere il depositario di una pagina di costume italiano che non era mai stata narrata.

Il suo romanzo ha una struttura visiva che ricorda molto quella di una sceneggiatura. Questa scelta è una conseguenza naturale della sua formazione personale o ci sono altre ragioni? Questo progetto potrebbe diventare in seguito un film?

È nato in questo modo, non ci sono stati ragionamenti antecedenti. Dopo averlo scritto, ho contatto due editori, uno mi ha detto no, l’altro sì. Non ci sono stati lavori di editing, non l’avrei accettato. Il libro potrebbe diventare qualcosa d’altro, sì. Abbiamo ricevuto degli interessi per trasformarlo in una serie televisiva. È un’idea a cui stiamo lavorando.

Tornando alle vicende raccontate all’interno del suo romanzo, lei ci presenta suo padre partendo dalla sua formazione teatrale. Un mondo agli antipodi rispetto a quello dei film di genere Western di cui successivamente diventò uno dei principali interpreti. Com’ è nato e come si è sviluppato questo inaspettato matrimonio?

Sì, all’inizio la passione non c’era, tutt’altro. Pensi soltanto al fatto che lui ha sempre dichiarato di detestare il cavallo. In più non era proprio adatto al ruolo del cowboy: era troppo alto, troppo elegante e aveva una formazione artistica di tipo accademico. Insomma, non aveva niente a che vedere con lo stereotipo dell’uomo rude di frontiera. Però, a quel tempo, tutti facevano western, perciò decise di giocare d’astuzia e di fare un tentativo per poter entrare nel mondo del cinema di genere. Si fece fare da mia madre una foto in bianco e nero vestito da cowboy, durissimo in volto. Cambiò nome da Antonio de Teffé al più anglosassone Anthony Steffen e inviò la sua foto con un adesivo attaccato dietro in cui si specificava “ANTHONY STEFFEN – Actor – Momentarily in Rome. Represented exclusively by Tonya Lemons, Hotel Hilton – Rome”. La mandò a cinquanta produzioni romane che, quando videro la foto in bianco e nero di questo attore americano momentaneamente a Roma, fecero di tutto per dargli una parte. D’altronde, non c’era Internet, non c’era il fact checking… Poi, però, quella che all’inizio era nata come una necessità per poter lavorare nel mondo del cinema è diventata, a tutti gli effetti, una passione. Mio padre si è talmente calato nel genere Western e nella storia americana, respirando sempre di più quei set, da diventare veramente Anthony Steffen. Tra l’altro, penso che abbia battuto anche un record all’interno del genere. Mio padre è stato il protagonista di ben ventisette Western all’italiana!

Ci sembra fondamentale affrontare la contestualizzazione storica in cui il Western all’italiana nacque. Nel suo romanzo il tema viene trattato con grande cura. Nonostante le numerose critiche negative per il carattere disimpegnato dello Spaghetti Western, crede che il contesto storico, politico e sociale influenzò in qualche modo il genere e la sua proliferazione?

Sicuramente. Il Western è legato profondamente alla storia di quegli anni, all’impegno sociale esploso come contraltare alla guerra in Vietnam, la prima guerra della quale il pianeta terra ha avuto una percezione più profonda. Durante Seconda guerra mondiale le persone si sono ritrovate immerse nell’orrore della guerra, mentre con il Vietnam si è potuto avere una prospettiva critica esterna anche grazie alla televisione. Le persone, in questo senso, ne hanno sviluppato una coscienza più forte. Quindi è ovvio che un certo tipo di Western nato dopo il Vietnam ne assorba questo impegno, penso al revisionismo western di opere come Soldato Blu.

E lo Spaghetti Western rientra pienamente in queste dinamiche sociali, tant’è che nelle varie prefazioni del libro parlo de “gli anni della dolce vita travolti dalla rivoluzione dello Spaghetti western”. Perché è stato qualcosa di unico: gli italiani si sono impossessati degli stilemi di un’altra cultura, li hanno metabolizzati per poi riproporli in nuove e rinnovate vesti, rinegoziando un genere istituzionalizzato come il Western. E gli stessi americani ci hanno detto che preferiscono gustarsi i nostri western piuttosto che i loro. Non penso che abbiamo ancora compreso la portata rivoluzionaria di questo genere. E nel mio romanzo, che non è una biografia ma una realtà trasfigurata, ho voluto restituire al lettore la presenza di un forte carattere rivoluzionario. e il cinema Western si cala in questa rivoluzione di protesta contro l’establishment.

Per chiudere le chiedo come vede il cinema italiano contemporaneo, crede che ci siano le basi per una rivoluzione analoga a quella che si ebbe negli anni ’60 con lo Spaghetti Western?

Ecco, qui è necessario partire dai problemi dell’Italia. Un paese pieno di detrattori e gate keeper e a cui si somma un grosso problema: non esistono più i mentori, ossia una generazione più matura che si occupa di guidare una generazione più giovane. Questo comporta una migrazione sempre più massiccia di giovani italiani all’estero. Se vogliamo questa rivoluzione possiamo ottenerla solo nel momento in cui gli italiani si metteranno a fare squadra come si faceva un tempo. Questo miracolo italiano è sotteso alla possibilità del lavoro di squadra. Se il lavoro di squadra esplode, esplode anche il miracolo.

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