"Denti", di Mitchell Lichtenstein

Forte del successo riscosso al Sundance Film Festival, arriva in Italia il nuovo fenomeno indipendente americano, che sorprende per il modo in cui rovescia le prospettive, dribbla le aspettative dello spettatore medio, e, mentre gioca con il mito e la fobia tutta maschile della castrazione, pone in essere un discorso non banale sull’importanza di comprendere se stessi in un mondo dove ogni forma di convivenza sociale denuncia il proprio fallimento

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Un’immagine nitida e forte quella della vagina dentata, legittimata attraverso la rievocazione del mito e forse generata dalla sagoma minacciosa di una centrale nucleare che si staglia alle spalle della casa dove vive la protagonista Dawn: immagini e idee che fanno pensare a un epigono delle irresistibili Class of nuke’em high create dalla Troma Film a metà anni Ottanta, come a riverberare l’eco exploitation che ha sino ad oggi accompagnato la promozione di questo film. Invece, a sorpresa, Denti è altra cosa. Il regista Mitchell Lichtenstein (figlio del grande artista pop Roy) lo sa ed è bravo a giocare con le aspettative piegando la storia alle sue esigenze, dribblando le aspettative dello spettatore medio, nello stesso modo in cui gioca con il mito e la fobia tutta maschile della castrazione.

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Pertanto la prospettiva non è maschile ma femminile e il grottesco emerge soprattutto nella parte finale (quella inevitabilmente più ossequiosa del genere e quindi più convenzionale), alla fine di un percorso che porta Dawn a conoscere meglio se stessa e i confini della propria sessualità, quando la maledizione della vagina dentata diventa un potere che può essere piegato alle proprie esigenze, concretizzando il postulato enunciato dalla stessa protagonista, secondo la quale tutti siamo in possesso di un dono speciale. In fondo il film è tutto lì, nella capacità di contestualizzare, conoscere e comprendere i poteri e le forze in gioco e per questo la regia di Lichtenstein lavora soprattutto sul contrasto fra le regole codificate dalla morale umana e quelle sottilmente suggerite da un paesaggio che è parte attiva e non passiva negli eventi narrati.

Ecco dunque che l’occhio della macchina da presa indaga lo spazio, rivelando elementi del paesaggio che evocano organi sessuali, cavità vaginali e stalattiti falliche che circondano la grotta dove Dawn per la prima volta capisce che il suo corpo è differente e che in seguito dovrà scenderci a patti. L’idea è che l’ambiente naturale, non contaminato dalla “civiltà” che mette in discussione l’evoluzione e la scienza attraverso forme di censura o di astinenza coatta, rifletta nelle sue terminazioni un’idea di pansessualità che ci dice come il desiderio sia parte stessa dell’esistere, sia soprattutto una forma di energia che permea l’ambiente e che sta alla coscienza dei singoli poi veicolare attraverso le forme più giuste. Ecco dunque che la presa di coscienza di Dawn è in opposizione a una realtà dove ogni forma di convivenza sociale denuncia il suo fallimento: amore filiale, amore fraterno o primo amore di coppia ne escono con le ossa rotte, mentre l’unica eroina è la ragazza che ha imparato a gestire il proprio dono e a contestualizzarlo nel mondo.

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Titolo originale: Teeth

Regia: Mitchell Lichtenstein

Interpreti: Jess Weixler, John Hensley, Josh Pais, Hale Appleman

Distribuzione: Mediafilm

Durata: 92’

Origine: USA, 2007

 

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