“Disturbi di frequenza” – G., di Ignazio Fabio Mazzola

In concorso alla Mostra di Pesaro, un corto “muto”, ma denso, come l’acqua del lago che riempie le inquadrature. Un film sulla dissoluzione delle cose e sulla permanenza dell’eco

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È la ripresa di un dialogo. Così almeno dichiara Ignazio Fabio Mazzola, introducendo la proiezione del suo nuovo film, in concorso alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. G. è l’iniziale del nome del padre, Giacomo. Ma sembra anche il simbolo grafico di un’energia universale, di una costante di gravitazione che misura l’attrazione dei corpi e segna il moto delle loro orbite. Ma G. non c’è più. Così come non c’è nessuno nell’inquadratura, sulle sponde di questo lago della provincia di Matera. E quindi non c’è dialogo. Almeno non ci sono parole che possano restituirlo. Solo un brusio di fondo, che forse è il fruscio del supporto di ripresa, forse il rumore delle acque, che si increspano nel leggero moto delle onde, sotto l’influsso di qualche corrente. Ed è l’acqua a riempire questi 18’ minuti di inquadrature, solo in apparenza tutte immobili. E avresti voglia di vedere, sulla superficie, riflessi impressionisti, scomposizioni di forme e variazioni di colori nella luce che cambia.

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In parte è così. Anche se non è esattamente nella complessità pittorica il punto delle immagini di Mazzola. Perché, nella resa del formato Mini DV, l’acqua è di un verde profondo, cupo. Tanto da sembrare assorbire qualsiasi fotone. Il riflesso, se c’è, non è che il debolissimo richiamo di forme indistinte, come la suggestione di qualcosa che appartiene a un passato lontano, di un’entità che si è inesorabilmente sfaldata in onde e particelle. Righe spettrali che punteggiano e solcano una massa densa, come un tessuto che si corruga e si distende. E, a un certo punto, la visione si trasforma in una seduta di ipnosi. In cui, prima, ti sembra di avvertire un leggero movimento laterale della camera, che è solo un’illusione prodotta dal flusso dell’acqua e che si aggiunge a quei piccoli, quasi impercettibili spostamenti in avanti. E poi, a poco a poco, si avverte una specie di disturbo di frequenza, un insieme di linee e punti che arrivano da chissà dove, attraversano l’immagine e ne interrompono la stabilità. Fino a che l’attenzione comincia a viaggiare per direzioni impreviste. E arriva fino alle soglie di quel segnale a “neve” delle vecchie televisioni. A quanto pare il bagliore residuo del Big Bang, dell’esplosione originaria, se si vuole prestar fede ai misteri dell’universo. Allora ripensi al rumore bianco di fondo come fosse anch’esso un disturbo di segnale radio, e rimetti insieme i punti.

Così, d’un tratto, diventa chiaro che quello di Mazzola è un film sulla dissoluzione nel flusso delle cose. Sulla scomparsa delle forme e persino dei ricordi. Eppure, se anche la memoria non è che un insieme di fioche linee spettrali nell’indistinto oscuro, sono comunque una traccia, un riverbero, per quanto lieve. E, allora, G. è anche un film sull’eco e sulla permanenza della luce nella riflessione. Come una piccola magia che attraversa le curvature dello spazio e del tempo, l’espansione e la solitudine, per rievocare un solo istante, quello di un mondo originario in cui tutto era unito. In cui non c’era ancora la morte e il dialogo era un abbraccio.

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