Dov’è la casa del mio amico?, di Abbas Kiarostami

Un magnifico resoconto di una indagine sull’infanzia e sulle relazioni tra bambini e adulti che si basa su una trama semplicissima e che, dopo 35 anni, mantiene intatta la sua bellezza. Su Mubi

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Uno dei temi più interessanti che pone il film del Maestro iraniano è quello che riguarda la sua stratificazione. Infatti, in definitiva il suo valore aggiunto, rispetto ad ogni indelebile affetto empatico che ci lega a questo film, è rintracciabile nei diversi livelli sui quali lavorano le immagini di questa apparente favoletta iraniana. Una favola amara la cui trama, si condensa nella ricerca da parte del piccolo e maldestro Ahmed del proprio compagno di banco Nematzadeh Reza per consegnarli il quaderno che ha preso per errore. Il piccolo studente è infatti recidivo e se non porta i compiti sul quaderno, ma su un foglio, sarà espulso dall’inflessibile maestro dell’Istituto per lo Sviluppo Intellettuale dei Bambini e dei Giovani.
Il film apparentemente è tutto qua, girato nella disadorna e quasi felice babele delle zone rurali di un Iran dimenticato e tra le mura delle case altrettanto disadorne in quella domestica intimità in cui accadono molte cose invisibili, che la macchina da presa indagatrice e pedinante sa cogliere con rara, rarissima sensibilità.
E di cose ne accadono al piccolo Ahmed che, avendo scoperto di avere preso per errore quel quaderno del compagno di banco, sarà assillato dal dovere morale di restituirlo, al di là di ogni volere della madre distratta dal bucato da fare e poco incline ad ascoltare il figlio che lamenta la necessità di rimediare all’errore. Ahmed di sottecchi parte per la sua piccola odissea che dovrebbe portarlo alla casa del suo amico sulla quale però ha pochi indizi, poche notizie e le altre con fatica e con coraggio le acquisisce a mozzichi e bocconi dai reticenti adulti, così poco disponibili a dare ascolto al piccolo che chiede aiuto.
Kiarostami si muove bene nel suo Iran rurale e i luoghi diventano una specie di labirinto dal quale Ahmed sembra essere intrappolato. Luoghi che diventano poi familiari, nella loro esibita povertà, per il regista che ci tornerà anni dopo, a seguito di un terremoto che avvenne proprio in quella provincia, per cercare il suo giovanissimo attore. Da quel viaggio di ritorno nacque nel 1992 E la vita continua.
Ma il film è forse soprattutto un magnifico resoconto di una indagine sulla fanciullezza e sulle relazioni tra bambini e adulti. La storia offre a Kiarostami l’occasione di guardare all’infanzia trascurata, considerata dagli adulti priva di responsabilità se non quella dello studio. Il film è un lungo e quasi ininterrotto flusso di non ascolto e di quasi fredda indifferenza per il patimento morale del piccolo che si scontra con questa inconsapevole – ma fino a che punto? – cattiveria degli adulti. Per saggiarla Kiarostami è impietoso e affida al nonno il compito di educatore inflessibile, che in questo ruolo caricherà il piccolo Ahmed, già ansioso per i suoi problemi, del compito di comprargli le sigarette pur avendone altre di scorta, ma solo per il puro gusto di dare un ordine al nipote con l’intenzione di educarlo all’obbedienza. Ma Ahmed è già portatore di principi morali che andrebbero solo sostenuti e in questo sta il non ascolto colpevole degli adulti. Perfino il vecchio falegname che sembra ascoltare il povero e affaticato Ahmed in fondo cerca solo qualcuno per vincere la solitudine e raccontare si sé stesso a qualcuno perché ne resti una pur labile traccia e una velata memoria.
Dov’è la casa del mio amico? è dunque anche un racconto morale nel quale il piccolo e indifeso protagonista è assillato dalla colpa e dal desiderio, tanto da vincere ogni paura e inoltrarsi in quel breve viaggio senza mappa e senza bussola per restituire il quaderno, ma soprattutto per evitare al suo compagno di banco una grave punizione.
È in questa ansia rappresa che coinvolge lo spettatore impotente, il film sa diventare anche un thriller in quella dannata ricerca di quel qualcosa di sconosciuto. E quell’ansia trova la partecipazione degli spettatori che farebbero di tutto per dare una mano allo sconsolato Ahmed così oppresso dalla colpa e così solo nel rimediare all’errore con le sue poche piccole forze.

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Non ci si innamorava nel 1987 casualmente del cinema iraniano e non era, in quei primi anni in cui quei film facevano la comparsa sui nostri schermi, neppure una moda, come forse avvenne alcuni anni dopo, nonostante la sempre buona qualità che quel cinema – o almeno quello che si vedeva nelle sale o ai festival – sapeva conservare. Ci si innamorava di quelle storie e di quelle soluzioni narrative perché il cinema iraniano, Kiarostami in testa, con il suo nuovo neorealismo avevano saputo riportare il cinema in una specie di luogo originario e soprattutto avevano saputo lavorare con estrema efficacia sulla narrazione e sulla drammatizzazione riscoprendo, in una sequela di successivi film, quello che Hitchcock chiamava il McGuffin quell’elemento, cioè, invisibile sulla scena che sapeva restituire interesse al film e ne sapeva diventare l’anima segreta. Kiarostami e gli altri registi iraniani, sulla scorta di una cultura che evidentemente sa valorizzare il semplice trascurabile dato quotidiano, hanno saputo costruire su questi piccoli eventi che diventano vere e proprie micce narrative e che si inseriscono perfettamente in un meccanismo di svelamento finale in quella che appare sempre come quotidiana routine nella quale si insinua quel perturbante che restituisce alla narrazione quella piccola epica del quotidiano. È in questa insistenza sul banale evento che la narrazione, in una rivisitazione alla luce di una differente cultura, si rivela in straordinaria sintonia con quella modernità narrativa europea dei primi del Novecento, nel quale l’epifania del quotidiano diventava pletorica e smisuratamente amplificata materia di narrazione. In quella stessa ottica il cinema iraniano sembra mutuare quei canoni narrativi rinnovandoli e ristrutturandoli in funzione della cultura mediorientale. In ogni caso è proprio da questa intuizione, tanto diffusa quanto efficace, che quella nutrita schiera di registi e scrittori ha dato vita alla migliore stagione del cinema dell’Iran.
Dov’è la casa del mio amico? è un film di 35 anni fa, ma con la sua ricchezza di temi e di piani interpretativi, con le sue sottigliezze psicologiche catturate da Kiarostami sul volto espressivo del piccolo Babek Ahmed Poor, perso e abbandonato nel suo labirinto, sa resistere al tempo come ogni opera senza tempo. È in questa ulteriore piega interpretativa che il film diventa avventura e scoperta per Ahmed, sapendo raccontare della meraviglia dello svelamento di numerose verità. È così che il film di Kiarostami sa farsi film essenziale sul difficile tema della crescita, dei sentimenti che mutano, raccontandoci in quegli anni e in un luogo lontanissimo quello che 30 anni prima ci aveva raccontato Truffaut, in un altro perfetto equilibrio tra narrazione e meditazione, tra ricerca e scoperta di ogni amara disillusione.

 

Titolo originale: Khane-ye doust kojast?
Regia: Abbas Kiarostami
Interpreti: Babek Ahmed Poor, Ahmed Ahmed Poor, Koudabakhsh Defai, Iran Outari, Ait Ansari, Sadika Taohidi
Durata: 83′
Origine: Iran, 1987
Genere: drammatico

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5
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Il voto dei lettori
4 (3 voti)
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