Dust of Angels, di Hsu Hsiao-ming

Taiwan è qui un reticolo di violenze e promesse disattese, con un’intera generazione condannata a vagare nel vuoto. Forse l’opera più cruda e brutalmente ignorata della New Wave taiwanese. Dal FEFF

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Corpi che sfrecciano nel buio della notte, omicidi a sangue freddo, violenza giovanile. Una sensazione che il mondo stia per finire nel momento stesso in cui il progresso inizia veramente ad affacciarsi dalla finestra e a sorvolare le vite di coloro che, inconsapevolmente, agiscono sotto le sue lugubri ramificazioni. È questa la Taiwan che Hsu Hsiao-ming offre al nostro sguardo. Un paese, quello di Dust of Angels, appena uscito da quaranta anni di Legge marziale, che si ritrova agli albori degli anni ’90 ad inseguire fenomeni che non è in grado di comprendere né di metabolizzare, lasciando le giovani generazioni ad agire nelle ombre della modernità. Fino a farle schiantare contro il muro delle (in)certezze collettive. Nel cuore di un’isola, che tra aperture alla democratizzazione e dolorose prese di coscienza storiche, fatica ancora ad individuare il nucleo della propria identità nazionale.

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In Dust of Angels, infatti, non è la sola Taipei ad emergere come centro di convergenza delle crisi socio-culturali del paese. Anzi, la capitale è il nesso urbano che connette tutti i territori dell’isola – e i cittadini che vi abitano – sotto il segno di uno stesso paradigma: la perdita di coordinate. Dalle zone industriali di Beigang ai luoghi in piena trasformazione di Wanhua e Ximending fino alla medesima Taipei, ogni luogo è sinonimo di dissoluzione, proprio perché attraversato da innovazioni e sviluppi fin troppo travolgenti e dinamici per poter essere canalizzati in una realtà immediatamente comprensibile – e quindi decifrabile da parte di chi, come i giovani protagonisti del film, non ha appigli morali o etici a cui delegare la propria formazione. È da qui, allora, che parte il destino di Ah Kuo e Hsiao Kang: due ragazzi risospinti verso il richiamo umbratile della morte. Schiacciati negli orizzonti di un paese che all’inizio degli anni ’90 è talmente proteso a bruciare le tappe della modernità, da rimanere sospeso in una liminalità vuota e transitoria. Dominata dall’assenza di qualsiasi certezza o coordinata di riferimento.

Non è un caso, allora, che il prologo di Dust of Angels sia iscritto in un’estetica di morte. Quello che il regista ci sta qui suggerendo con la raffigurazione di un omicidio improvviso, fugace, che mette in moto il percorso di vendetta/formazione dei giovani protagonisti, è la fotografia nichilista (e annichilente) dei tempi correnti. Se prima dell’uccisione di uno dei capi del loro “mentore” Hsiao Kao vediamo i due ragazzi trascorrere le giornate tra lotte e zuffe di quartiere, giocate al biliardo e vandalismi, nel momento in cui sono costretti a fuggire da Beigang, per viaggiare fino alle moderne illusioni della capitale, la loro attitudine alla delinquenza rifluisce in una dimensione nuova. Ancora più sfuggente e perturbante per come enfatizza, e non disinnesca, i sintomi di un’insoddisfazione impossibile da controllare. Perché il mondo in cui si muovono non ha stabilità né speranze, almeno finché i valori-in-trasformazione del paese non convergano in un’immagine unitaria e coerente di nazione. Ma questa è un’altra storia, un’altra prospettiva. E non riguarda chi, come i giovani Ah Kuo e Hsiao Kang, si trovano nel pieno del ciclone. Prede dell’erosione (valoriale, etica, esistenziale) di una società che ha sposato la corsa frenetica all’industrializzazione e alla crescita economica. Senza preoccuparsi minimamente di quelle vittime che, nel frattempo, restano schiacciate dal suo indomabile avvento.

Tutto ciò che sta nel mezzo del racconto, così come il finale, non è nient’altro che la prosecuzione naturale di quella scheggia di violenza iniziale. Perché il cammino dei due protagonisti ha un solo sbocco possibile, anticipato già nell’orizzonte caotico del prologo. Tanto che nel corpo esanime di Ah-kuo, abbandonato sulla riva di un fiume alla pari di una carcassa, vediamo cristallizzati i sogni, le speranze e le illusioni di una generazione che fatica a tenere il passo con la modernità. “Tutti i miei amici se ne sono andati” sentiamo udire non a caso alla voce del ragazzo, dispersa tra le pieghe di un fuori campo astratto: “Mi hanno lasciato solo”. Eppure nelle parole di Ah-kuo non c’è nostalgia. Ma rassegnazione. Perché in Dust of Angels conta esclusivamente la fotografia del presente. Di una Taiwan che in maniera analoga a quella di Goodbye South, Goodbye o Three Times (lo stesso Hou, tra l’altro, figura qui come produttore esecutivo) sfugge ad un’idea di pienezza. Frammentata com’è tra la corsa alla democratizzazione, e la difficoltà ad abbandonare i retaggi nazionalisti del passato. In cui a cadere è chi, tra fughe e atti violenti, non è in grado di vedere oltre il sentiero della (propria) disperazione. Condannato sin dall’inizio a diventare un fantasma. Invisibile agli occhi dello stato. Proprio come la polvere degli angeli.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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