Festival di Cinema e Donne – Mur. Incontro con Kasia Smutniak

In apertura del Festival fiorentino, l’attrice ha presentato il suo esordio dietro la macchina da presa. Ecco cosa ha raccontato alla stampa

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«Si continua a costruire muri, ma non si parla continuamente di muri. Ho fatto una ricerca su quanti ce ne sono in Europa e non è stato facile trovarli, perché semplicemente non vengono chiamati con il loro nome. Il titolo del film non lascia spazio all’interpretazione: Mur, tre lettere, dal polacco all’italiano, che significa quello che è. Una divisione di 186 chilometri, alta sei metri, in metallo, che cos’è se non un muro?».

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Comincia così l’incontro con Kasia Smutniak a Firenze, a margine della proiezione del film Mur, suo esordio dietro la macchina da presa e presentato a Toronto e alla Festa del cinema di Roma, adesso per il Festival di Cinema e Donne, nel cartellone della “50 Giorni di Cinema a Firenze”. Di quale muro si sta parlando? Di un muro invisibile ai media. Perché nessuno è autorizzato a filmarlo, a diffonderne anche solo le immagini.

«Il muro più lungo d’Europa, un progetto costosissimo, che chiude tutto il confine con la Bielorussia. E a quel muro non ti puoi neanche avvicinare: né come profugo, come migrante, né come giornalista, come reporter. Quel muro c’è, ma rimane invisibile»..

L’attrice e modella polacca naturalizzata italiana non si è spinta oltre il confine da sola, ha condiviso il viaggio insieme alla documentarista e co-autrice Marella Bombini, ed è riuscita ad entrare dove non era concesso.

Che cosa è stato più difficile per lei, Kasia?

«La paura più grande era quella di non riuscire ad essere abbastanza forte psicologicamente, reggere l’impatto verso tutto quello che vedevo, e che sentivo emotivamente. Ci siamo date forza l’un l’altra con Marella».

Con che mezzi avete girato?

«Abbiamo filmato dove non si poteva filmare, a volte armate solo di un iPhone, registrando solo le parole che venivano pronunciate, o nascondendo la telecamera con il fuoco automatico, perché più agile, più pronta. Molte immagini sono rubate. All’inizio del progetto avevamo due operatori, ma li abbiamo persi, perché sono dovuti andare a filmare la guerra in Ucraina. Ci siamo trovate da sole, e abbiamo fatto di necessità virtù: siamo state operatrici, registe e testimoni di quello che vedevamo».

Qual è stata la sua forza?

«Forse, paradossalmente, essere donne ci ha aiutate. Stavo facendo una cosa estremamente lontana dal mio contesto lavorativo: venivo talmente sottovalutata che tutti si rilassavano, parlando con me! E poi, mi ha dato coraggio il fatto di essere in parte italiana. Ho pensato: se qualcosa va storto, forse posso contare su un caso internazionale!».

Dopo dieci giorni di viaggio, di esperienze e storie raccolte, dopo 120 ore di girato e 9 mesi di montaggio è nato “Mur”. Era in programma?

«No, ma col passare del tempo è diventato quasi una necessità. Avevo un disperato bisogno di fare luce sulla situazione dei migranti respinti ai confini dell’Europa, tra Polonia e Bielorussia. Dopo il primo viaggio con Diego Bianchi, per un reportage per Propaganda Live, ho pensato a cosa potessi fare. Così sono partita».

Qual è stata la motivazione più forte per fare questo film?

«L’ho sentito necessario. Quando vedi un incidente in strada, cerchi di prestare aiuto, come puoi. Non stai a chiederti troppe cose, non ti fai troppe domande: agisci e basta. E così ho fatto io: ho cercato di dare il mio contributo. All’inizio del 2022, il governo di Morawiecki ha deciso di rafforzare la linea di confine con la costruzione del muro, conclusasi nell’estate dello stesso anno. I militari obbligavano i migranti a dover rimanere settimane bloccati in una striscia di terra, larga poche centinaia di metri, immersa nella foresta, noncuranti delle condizioni avverse sia del terreno che del clima, con il freddo invernale che sopraggiungeva.
Anche se non sono un medico, un avvocato, un politico. Sono solo un’attrice, conosco la forza delle immagini: ho provato a comunicare questa storia a chi non potrebbe vederla, a chiarire e mostrare a chi non potrebbe conoscerla».

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