"Identità violate", di DJ Caruso

Non c'è mistero, non c'è un percorso genogrammatico verso l'orrore, non c'è un vero legame che unisca i corpi. Alla fine Caruso “ruba” le vite dallo schermo ma in questo caso non riesce a dar loro una vita altra, degna.

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Spiace tirare in ballo ogni volta che ci si imbatte nel serial killer di genere titoli come Il silenzio degli innocenti o Seven. Non pensiamo che i modelli debbano essere per forza avvicinati ma delle due l'una: o si porta un elemento, una chiave d'approccio, uno straccio di idea originale che possa resistere alle lusinghe della noia e della ripetizione involontaria; o si gioca consapevolmente con i clichès del passato creando una sinergia aperta allo spettatore. Spiace anche fare valutazioni che possano apparire di un antiamericanismo d'accatto, noi che abbiamo sempre difeso l'essenza merceologica dell'opera filmica o il valore artistico del prodotto di consumo, convinti che l'humus industriale consolidato da sempre abbia aiutato l'emersione del talento. Il fascino del cinema americano risiede spesso in un continuo ed estenuante braccio di ferro tra l'entità creativa e la Macchina. Proprio per questo ci chiediamo quanto DJ Caruso, vantando il solo noir paralynchiano Salton Sea nel proprio curriculum, abbia preteso, accettato o tollerato la funzione di Angelina Jolie, che come personaggio risulta deleterio per gli sviluppi delle dinamiche sotterranee del testo e come corpo attoriale risulta un brandello di memoria (vedi Il collezionista di ossa) inerte, avulso e gommoso come la protesi che darà modo di catturare il killer. Anche i 102 (imposti?) minuti del film risultano un'eternità in un'epoca in cui fare un film sotto i 90 minuti, come alcuni noir degli anni '50, sembra quasi un atto blasfemo. Ingiusto sarebbe anche abusare del termine "televisivo" per la piatta recitazione dei comprimari (anche se spiccano la sempreverde Gena Rowlands e il cameo sfuggente di Kiefer Sutherland, oltre all'ambigua interpretazione del co-protagonista, Ethan Hawke).

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Spiazzante è piuttosto l'ottimo prologo, dove seguiamo in un clima di crescente tensione il primo delitto di un adolescente Martin Asher. Ladro di vite, uccide le vittime, ne mozza le mani, ne fracassa il cranio, ne assume l'identità, si stabilisce nelle loro case per mesi prima di scegliere un altro obiettivo. Una personalità così complessa meritava un camaleontismo psicologico e visivo maggiore. Caruso si accontenta di una mimesi funzionalista nella cornice canadese che, inserita in inquadrature sin troppo geometriche, accompagna un accumulo di presunti colpi di scena il cui fine ultimo risulta l'abbattimento delle difese di Illeana Scott (Jolie), l'agente dell'FBI specialista in profili criminali che a poco a poco cede al fascino di un serial killer altrettanto abile. Ma non c'è mistero, non c'è un percorso genogrammatico verso l'orrore, non c'è un vero legame che unisca i corpi. Alla fine Caruso sembra quasi una proiezione di Asher, "ruba" le vite dallo schermo ma in questo caso non riesce a dar loro una vita altra, degna. Le disperde.




Titolo originale: Taking Lives


Regia: DJ Caruso


Sceneggiatura: Jon Bokenkamp, tratta dal romanzo "Ladro di vite" di Michael Pye


Fotografia: Amir Mokri


Montaggio: Anne V. Coates


Musiche: Philip Glass


Scenografia: Tom Southwell


Costumi: Marie-Sylvie Deveau


Interpreti: Angelina Jolie (Illeana Scott), Ethan Hawke (Costa), Kiefer Sutherland (Hart), Gena Rowlands (Signora Asher), Olivier Martinez (Paquette), Tcheky Kario (Leclair), Jean-Hugues Anglade (Duval)


Produzione: Mark Canton per Village Roadshow Pictures


Distribuzione: Warner Bros. Italia


Durata: 102'


Origine: Usa, 2003


 

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