IFFR 2024 – Una sintesi del mondo

Il festival di Rotterdam con il suo programma cerca di indagare sperimentazioni e linguaggi dell’audiovisivo per costruire uno sguardo sul panorama internazionale ricco e pieno di sfumature

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Tiger Competition, Harbour, Limelight, Bright Future. Le sezioni principali del Festival Internazionale di Rotterdam racchiudono sguardi e visioni raccolti in giro per il mondo,con la prospettiva di raccontare il pianeta, quello che ci circonda, dei problemi che lo attraversano, dei sogni e delle persone che lo vivono. Tanti film, ognuno a suo modo adatto a descrivere una parte dell’insieme, una parte di cielo, con le sue stelle, qualche volta oscurate dalle nuvole.

Sarcastico, irriverente e soprattutto demenziale. Steppenwolf inizia con una citazione di Goethe ma perde la misura delle parole dopo un attimo per sposare quella dei proiettili. Arriva dal Kazakistan questo revenge movie presentato in anteprima a Rotterdam, con due protagonisti eccentrici, l’uomo emissario della morte dopo lo sterminio della famiglia e la donna resa invulnerabile dalla follia scatenata dal sequestro del figlio. Sotto la guida del destino che li ha uniti nella ricerca del loro comune nemico, iniziano un viaggio dove le torture e le sevizie si propagano come un’onda d’urto, una violenza riversata ed incentivata dal paesaggio ridotto in cenere dall’arrivo di un uragano di sangue. Lo snodo balbuziente tra gli altari del deserto sono le tappe incendiarie della coppia in un mondo ormai votato alla distruzione ed all’anarchia. A tratti talmente strampalato da essere divertente. Punto di merito l’estemporanea inquadratura di Sentieri Selvaggi in ossequioso omaggio a John Ford.

L’artista svizzero con Reise der Shatten di Yves Netzhammer realizza invece il naufragio quotidiano di una coppia, noia intimità e libidine, servendosi di un’animazione modulare con una tavolozza di colori basic. La semplificazione del tratto è inversamente proporzionale all’inquietudine, tanto da risultare con l’apporto della musica pieno di riferimenti oscuri all’inconscio. I suoi automi hanno progenitori illustri costretti nei dipinti di De Chirico, mentre le strutture metafisiche qui si scompongono, diluite e collassate nel piacere dell’amplesso, sembrano emanare l’odore della carne nonostante i movimenti meccanici. La trama è smembrata da un soffio onirico partorito dalla fantasia dentro un profumo concettuale di prim’ordine.

Dream Team sceglie un contenitore simbolico, quello dei 16 mm, per raccontare l’indagine dell’Interpol sulla misteriosa uccisione di un contrabbandiere di coralli. In questo caso il formato fa da vetrina, e le spiagge del Messico riflettono tutta la loro bellezza, ma in generale l’estetica fotografica si ritaglia una posizione preponderante sull’insieme. Tra il serio ed il faceto la storia è ambientata agli albori dell’era internet, un periodo semi analogico, e divisa in sette mini episodi, un approccio seriale utile a divagare tra i generi, dal romantico al sentimentale. Una leggerezza di tono corrispondente ad una superficiale profondità analitica, non per forza un difetto considerando la piattaforma televisiva a cui è destinata.

Air: Just breathe è un film di fantascienza di Leticia Tonos. Siamo nel 2148 e la terra è spacciata, l’aria del pianeta è irrespirabile e la razza umana è praticamente estinta, fatta eccezione per i due protagonisti. Un uomo ed una donna che lottano per la sopravvivenza della specie, con il supporto di un’intelligenza artificiale, Vida, che rischia di finire fuori controllo. Girato quasi interamente in interno, cerca di condensare sguardi e visioni di genere ampiamente acclarate in un adattamento poco riuscito. Un po’ per l’enorme peso riservato alla recitazione, soprattutto per un lavoro di postproduzione sui colori inutilmente sovraccarico e  di una scrittura intelligente ad introdurre delle tematiche ma insufficiente nel loro sviluppo, vedi ad esempio il caso del pericolo dell’eccessivo potere delle macchine, un discorso di estrema attualità. Resta di buono il messaggio ecologista.

Perdidos en la noche (Lost in the night) di Amat Escalante, un regista caro alle platee festivaliere grazie a titoli come Heli e La region salvaje, arriva a Rotterdam dopo l’anteprima a Cannes. La notte è quella di un paese, il Messico, terra martoriata dalla delinquenza. In questo caso non si tratta di narcotraffico, la sostanza è molto simile:  poliziotti corrotti, speculazione ai danni di povera gente e persone scomparse dopo la denuncia del malaffare. In questo clima torbido muove i passi il giovane protagonista Emilio, intenzionato a trovare giustizia per la mamma svanita nel nulla tre anni prima. Prima di aprire il vaso di Pandora il regista intreccia tematiche antiche e moderne attraverso gli altri personaggi, dalla sessualità alla realtà digitale, dall’arte alla religione. La deriva horror del film precedenti lascia tracce di efferatezza, ma le dinamiche hanno sembianze e maschere umane, rese pigre dalla noia e feroci dall’ambizione, ingenue o ipocrite, ognuna con il suo piccolo posto nel mondo da proteggere dagli intrusi e condividere un momento d’amore, in un silenzio che combatte l’indifferenza. Una lotta di classe attraverso le ingiustizie subite dai più deboli costretti a favore dei pochi privilegiati.

Makbetamaximus è la trasposizione allucinata in salsa filippina di Khavn De La Cruz della tragedia shakespeariana. Artista poliedrico conosciuto soprattutto per il suo cinema sperimentale, anche in questo caso non rinuncia ad adottare delle soluzioni visive inusuali, si diverte a riempire lo schermo di volti deliranti, moltiplica e sovrappone immagini  togliendo centralità allo sguardo, ed usa la medesima destrutturazione sui testi dei dialoghi. Fin dalla profezia delle streghe le voci diventano ossessive e la sete di potere diventa il vomitevole linguaggio delle gang. Un insieme sgraziato, volutamente eccessivo, preciso nella sua irrefrenabile espulsione di improperi e mostruosità formali, la follia racchiusa in un incubo di spettri villani e cortigiani cafoni.

Arriva da Giappone Dear Kaita Ablaze un film ispirato all’opera del pittore e poeta Murayama Kaita morto nel 1919 in giovanissima età, soli 22 anni. Dal suo corpus artistico Sato Hisayasu ottiene un estratto tanto misterioso quanto affascinante. Realizza delle connessioni attraverso una ragazza fanatica dei suoi dipinti, di un ragazzo che crede di esserne la reincarnazione e di un gruppo di giovanissimi performer di strada dotati di poteri psichici. Il film sfugge ad una linea logica, vive di fantasie incarnate da una chimera, arriva dove le tracce si perdono nella sabbia, dove l’eco dei versi si spegne nel vento, e lì comincia a vagare spinto da un desiderio, fa in fondo quello che l’arte dovrebbe fare, indicare una rotta da seguire e poi lasciare ad ognuno la libertà di disegnare la propria mappa sensoriale. La stessa trama non è altro da una serie di vortici che si urtano, per poi ruotare lontano.

Anche per Twittering Soul dell’artista lituano Deimantas Narkevičius mantiene la stessa leggerezza strutturale, e attraverso l’uso di un 3d stereoscopico ci mostra un piccolo villaggio immerso nella natura dove gli abitanti vivono a stretto contatto con la magia. Il materiale da cui attinge le storie è fatto di leggende, racconti popolari, canzoni, tutti elementi che rapiscono l’attenzione dello spettatore già incantato dal virtuosismo estetico, dalla voce delle fate e dal suono delle acque. L’atmosfera è l’aspetto più importante, e le pareti di piante e di luci diventano un palcoscenico per rappresentare i sogni ed interrogare il divino, mentre i suoi segni si moltiplicano tutto intorno e negli animali si può ritrovare il volere del cielo. Una linea magica in comune con un altro titolo 8 Views of lake Biwa, film che si muove sul confine e parla la stessa lingua della fiaba, gli amori e le delusioni e il mistero. Le acque del lago sono la linea divisoria, realtà ed illusione due aspetti di un unico riflesso antico, sospeso nel sogno ma minacciato dall’irrompere del presente, la guerra, io desiderio, una nuova vita, una nuova sposa, senza occhi, così che non possa guardarmi nel cuore.

Sperimentazione è una delle parole d’ordine della Tiger Competition, ed Animalia Paradoxa ha tutti i requisiti per farne parte. Niles Atallah parte dal lavoro classificatorio di Linneo e dal suo bestiario mitico per immaginare una distopia tra le macerie dei palazzi invasi dai rifiuti, strisciando agonizzante nelle stanze abbandonate di un mondo uscito dalla catastrofe. Maschere orrende, burattini mossi dal demonio, esseri vomitati dall’inferno, l’universo creato dal regista statunitense è l’anticamera di un incubo.

A Small hours of the night, il nuovo lavoro di Daniel Hui, dopo la partecipazione alla Berlinale con Demons bastano un telefono, un registratore, un uomo, una donna per raccontare una storia. Pochi elementi e delle linee di dialogo per mettere in scena un film minimale, in bianco e nero, con una fotografia in chiaroscuro e le ombre che tracciano un profilo psicologico ed emotivo. Così come nel film precedente, convivono una parte misteriosa ed una esplicita, piena di sottotesti, significati profondi e riferimenti alla situazione politica di Singapore, una democrazia di facciata, fittizio artificio del potere per nascondere il suo intento repressivo. Incredibile la capacità di creare tensione con i ridotti mezzi a disposizione, l’uso intelligente delle luci e il grande lavoro sugli attori, per ottenere un interrogatorio in piena regola, una lenta concessione, i segreti, le responsabilità e le certezze che oscillano di continuo.

Sempre dall’Asia, ma dalla Cambogia, arriva l’horror Tenement. La storia è presto detta: Soriya è una manga artist che vive in Giappone, che torna a Phnom Penh per trovare i parenti di sua madre morta anni prima. Finisce in un strano edificio fatiscente, dove avvengono cose insolite, rituali di sangue, bambine che appaiono dal nulla, un escalation di indizi tanto raccapriccianti da spingere alla follia ed al delirio. Il film utilizza le regole basi della paura, i volti e le situazioni, soluzioni semplici ed efficaci, senza il bisogno di ricorrere ad effetti speciali. E la ricerca delle proprie radici si trasforma in un incubo da cui non si può scappare.

Madame Luna affronta un tema delicatissimo, quello dell’immigrazione, e lo fa assumendo un punto di vista molto rischioso, una donna eritrea, la stessa del titolo, arrivata in Calabria e finita in un centro di accoglienza di Lamezia Terme, con un passato di complicità con gli scafisti in Libia. Un film che parla attraverso la coscienza, sotto la pressione eccessiva della fuga da un guerra e dalla fame, di gente disposta per sopravvivere a scendere a compromessi con persone senza scrupoli. Tratta da una storia vera, racconta dei giorni passati dalla donna in Italia, incrociando la vita degli altri rifugiati come lei destinati alla schiavitù di una manodopera agricola sottopagata e gestita da organizzazioni criminali o nel caso delle donne costrette a diventare prostitute.

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