Il legame, di Domenico de Feudis

Dall’esoterismo perduto della Puglia sorge un horror tanto magico quanto inquietante, con cui il regista rappresenta abilmente alcune antiche credenze popolari. Su Netflix, con Riccado Scamarcio

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Quello della superstizione, del malocchio e in questo caso della fascinazione è un mondo ricco di materiale a cui attingere, essendo formato da credenze tanto radicate da persistere ancora oggi nelle realtà rurali e da espandersi in tutto il paese, arrivando a influenzare sotto diverse forme anche le vite più moderne. Dopotutto molte di quelle pratiche magiche o rituali, così noti nell’immaginario collettivo e nel gergo fantastico, hanno le loro origini nei miti e nelle tradizioni pagane e, di conseguenza, nella nostra storia: dai rimedi della nonna, che consistono nell’uso di aceto, bicarbonato, olio d’oliva o spezie come base per ogni ricetta a scopo di guarigione, passando per la creazione di veri e propri intrugli medici e la diffusione di amuleti protettivi costruiti con foglie e capelli, fino a pratiche terrificanti quali l’esorcismo o le punizioni corporali atte a scacciare il male. Ed è grazie a queste se il sud gioca un grande ruolo nella costruzione moderna della fiaba dell’orrore italiana, incentrata sul forte vincolo con la propria terra, con la propria famiglia e con il proprio passato. Per questo l’opera prima di Domenico de Feudis, Il Legame, arriva al punto partendo proprio dal suo titolo.

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Abituati a rappresentazioni che lo vedono sotto la luce, anche nei componimenti il cui intento è svelarne i problemi, il sud Italia è da qualche tempo diventato lo sfondo degli horror nostrani, esponendosi così al buio. Quello che è stato lo scenario di una serie interminabile di commedie, che ne sfruttavano gli elementi più iconici – dai paesaggi fino all’accoglienza e al cibo e al clima – ora si presta a lavori che ne vogliono rivelare gli aspetti più oscuri, altrettanto radicati nel suo patrimonio culturale. Quando si parla di leggende di demoni, entità e superstizioni, l’Italia – e soprattutto il meridione – si rivela una fonte inesauribile di materiale affacciato all’occulto: solo l’anno scorso con Il Signor Diavolo Pupi Avati ha messo in scena una storia sovrannaturale all’interno della cornice padana, prendendo a piene mani dalla ricchezza di contenuti che l’ambientazione era in grado di offrire; e seguendo le stesse file di Garrone con Il racconto dei racconti, che anziché riproporre le fiabe dei fratelli Grimm aveva spostato l’attenzione a Lo cunto de li cunti – raccolta di fiabe napoletane scritta da Basile – trovandovi elementi ancora più tetri e storie ancora più crude, la fiaba horror di Domenico de Feudis usa le tradizioni del paese per realizzare un film di genere, con tonalità da thriller pregno di tensione, che aleggia in modo quasi naturale tra realtà e misticismo.

Il concetto di fascinazione è, secondo il credo popolare, una pratica che consente di creare un legame oscuro tra due persone. Viene spiegato e introdotto nelle didascalie dall’antropologo Ernesto De Martino, scrittore del saggio Sud e Magia, che aprono il film; ed è proprio di magia che si tratta, quel ‘Non è vero ma ci credo’ che corrisponde alla parte più irrazionale del nostro immaginario ma che sopravvive ancora oggi. È per questo che l’opera non piange la mancanza di effetti speciali o di trovate originali a livello narrativo: le sue fondamenta si posano su una paura reale, già insita nella tradizione. Ed è questo l’ingrediente necessario del genere: riuscire a provocare paura anche quando si è consci di star assistendo a una finzione. In questo caso non servono scene splatter o slasher, torture porn o jump scares: la suggestione diventa l’unico elemento necessario. Ricordando la famosa citazione del professor Milius in Suspiria, la magia è quoddam ubique, quoddam semper, quoddam ab omnibus creditum est – ovvero quella cosa a cui credono tutti, sempre e ovunque.

Francesco (Riccardo Scamarcio) ritorna a casa in Puglia dopo tanto tempo per far visita alla madre, Teresa, cogliendo così l’occasione di presentare alla sua famiglia la compagna e futura sposa Emma e la di lei di figlia, Sofia (una espressiva Giulia Patrignani). Misteriosamente, l’accoglienza fredda e distaccata rivolta a Emma dagli abitanti dell’immensa tenuta secolare non è rivolta alla bambina. L’iniziale viaggio in macchina è attraverso le campagne pugliesi e il passato di Riccardo, tanto affezionato ai suoi ricordi, sullo schema di Shining – ove tre facce felici e inconsapevoli stanno per addentrarsi in qualcosa che cambierà le loro vite per sempre, in una confezione che rispetta alla perfezione le regole del genere con tanto di ciocche di capelli che escono dalla bocca, specchi frantumati, possessioni, morsi di tarantola, case antiche che scricchiolano e magici riti curatori. Tutti stilemi decisamente sfruttati fino alla noia, ma che che qui sono stati applicati superbamente attraverso lo studio della cinematografia horror internazionale, imparando così da non farli apparire obsoleti. Partendo da un prologo che avvisa lo spettatore di qualcosa di arcano e contemplativo che andrà poi scoperto, il regista gioca con il punto di vista, lasciando che il suo pubblico cada nella trappola della visione mostrata prettamente attraverso la prospettiva e le sensazioni di Emma, che sospetta di ogni bisbiglio, rumore, ombra, occhiata; e stimola così lo spettatore sia nel gioco visivo che in quello culturale. Infatti, anche se c’è la sensazione di aver già visto tutto, l’aver scelto come location una Puglia pregna di oscurità quasi mistica – che parte dalle persone e si insinua nel terreno, tra ulivi sradicati e legami di sangue – e la visione di ciò che è il malocchio danno al componimento un forte potere evocativo. È probabile che la tensione e l’interesse dello spettatore siano ben piantati nel sapere in che modo la finzione si insinua in un ambiente così realistico, con personaggi veri che riescono a celare dietro i loro sguardi un pizzico di misterioso. Tutto segue le regole del cinema di genere, dell’horror conosciuto, con ricchezza di particolari e dovuto magnetismo; Domenico de Feudis costruisce un horror italiano maturo e tornito, e se il film è colpevole di avere una pecca, se così si può chiamare, forse sta proprio in questo totale rispetto delle regole, e della loro ricostruzione.

Regia: Domenico de Feudis
Interpreti: Riccardo Scamarcio, Mía Maestro, Giulia Patrignani, Mariella Lo Sardo, Federica Rosellini, Raffaella D’Avella, Sebastiano Filocamo, Roberto Negri, Antonella Bavaro, Susi Rutigliano, Pino Bruno
Origine: Italia, 2020
Distribuzione: Netflix
Durata: 92’

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.57 (7 voti)
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