Il realismo come incontro: Mimmo Calopresti a Sentieri Selvaggi
il regista ripercorre le proprie vicissitudini esistenziali e produttive, da Torino a Roma, dal documentario alla fiction.
Una simile scelta testimonia un profondo bisogno di comunicare, di raccontarsi, di informare a proposito delle "tappe emotive" di un percorso cinematografico iniziato a "Torino, la sua città", luogo stimolante alla fine degli anni 70 in virtù della presenza di un festival indipendente per vocazione e fiero della propria distanza, non solo fisica, dall' industria-Cinema della Capitale. Fin dai primissimi cortometraggi documentari, infatti, Calopresti è alla ricerca di un cinema vivo -fatto di vite- ma soprattutto da vivere -per l' autore e per chi ci lavora-, un cinema quale avventura corporea, in un equilibrio complesso ma possibile tra lasciar voce alle persone, ai soggetti filmati, e concedere la stessa libertà ai "soggetti filmanti", tentando l'ammirevole impresa di concepire il realismo come luogo dell' incontro tra un autore e un microcosmo.
Il cineasta possiede un unico obbligo, quello di assaporare la vita, di esserne affascinato, deve comportarsi come l' intruso che, solo con la propria presenza, permette alla drammaticità intrinseca delle storie -nessuna Storia, solo storie- di esplicitarsi, di assumere una forma che prima non potevano avere, perchè erano solo vite. Ecco allora che a volte, come epifanie nel relativismo universale, si animano piccole certezze (che "esista la parola amore", che "la felicità non chieda niente in cambio", o che "voler solo vivere" non sia la più ovvia delle pretese) e diventano titoli. Di documentari? Di fiction? La linea di demarcazione è fittizia, e se il passaggio dall' universo delle parole a quello del Cinema era avvenuto quando le parole avevano iniziato a suggerire qualcosa di altro, di non detto, altrettanto spontaneo risulta il passaggio alla fiction: (parafrasando Kieslowsky) quando la realtà suggerisce al regista più di quanto non gridi apertamente, perchè non aiutarla ad esprimersi? In fondo, il compito di un autore è "dare coerenza a quella scissione che è in primo luogo dentro se stessi", sottolinea Calopresti, quindi perchè negare il supporto di una struttura narrativa?
Stizzito dalla retorica che l'etichetta di "cinema politico" si porta dietro, il nostro autore ce ne offre comunque, a suo modo, la propria definizione: quando la libertà di stampa si va eclissando e le coscienze assopendo, non vi è gesto più politico che parlare di attualità, scendere tra la gente con "l' idea che ciò che si vive si racconterà", umanamente, con addosso una "maglietta rossa" (come fece il tennista Panatta, protagonista del suo ultimo documentario) che non è simbolo politico ma ironica -e più che mai morettiana- provocazione.