Infinito: l’Universo di Luigi Ghirri. Intervista al regista Matteo Parisini, e a Ilaria e Adele Ghirri

A trent’anni dalla scomparsa del fotografo emiliano, abbiamo incontrato alla Festa del Cinema di Roma il regista del doc a lui dedicato e le figlie Ilaria e Adele Ghirri

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A trent’anni dalla scomparsa del fotografo emiliano, la Festa del Cinema di Roma ha ospitato il documentario a lui dedicato, Infinito: l’Universo di Luigi Ghirri. Abbiamo intervistato il regista Matteo Parisini e le figlie Ilaria e Adele Ghirri.

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Da chi è partita l’idea del progetto, com’è iniziato, come vi siete incontrati?

Matteo Parisini: Io sono un ammiratore di Luigi Ghirri da quando ero adolescente. Nel corso degli anni ho sempre seguito il suo lavoro, anche tutto il lavoro di ristampa di qualche anno fa che ha fatto Adele. Fino a che non ho letto Niente di antico sotto il sole, che raccoglie gli scritti di Ghirri e da lì è nata l’idea di fare questo documentario in prima persona e di restituire prima l’uomo e poi l’artista. Lui amava spesso dire che era prima una persona e poi un fotografo. Il primo step è stato coinvolgere la famiglia poiché è il primo nucleo da cui partiva tutto e con cui lui si ritrovava sempre. Sono entrato in contatto con Adele e Ilaria e abbiamo iniziato a sviluppare questo viaggio che è durato circa un anno e mezzo.

E in che misura Adele e Ilaria sono state coinvolte nel progetto, nella selezione dei materiali d’archivio, delle fotografie?

Adele Ghirri: Matteo ha contattato prima Ilaria, la quale mi ha passato la richiesta perché io sono nell’archivio a Roncocesi. Ci siamo incontrati e l’abbiamo indirizzato verso le persone da sentire. Io personalmente nel film non intervengo perché abbiamo deciso di lasciar parlare chi aveva realmente conosciuto e aveva dei ricordi diretti di Luigi. Tra me e Matteo c’è stato un dialogo nel cercare di capire chi ascoltare. Ci siamo confrontati su diverse tematiche. Anche per decidere chi scegliere per dare voce a Luigi. Io sapevo di questo interesse, di questa passione di Stefano Accorsi perché tempo prima aveva espresso il desiderio di leggere questi testi e abbiamo pensato che questa fosse l’occasione perfetta. Noi come famiglia siamo stati molto felici di raccontare chi fossero anche gli amici di Luigi Ghirri, abbiamo fatto da tramite tra Matteo e chi poteva raccontare nostro padre, tutte persone che gli hanno voluto molto bene e a cui noi vogliamo bene a nostra volta. Per me e anche per Ilaria si è sempre trattato di una famiglia allargata. Per noi era importante restituire questo clima di familiarità che Luigi era riuscito a creare intorno a sé e che non l’ha mai posizionato come un mentore o un maestro. Dopo è stato narrato come il capofila dei fotografi italiani, ma lui di per sé non instaurava questo tipo di rapporto con le persone.

Il senso di familiarità emerge forte dal documentario, questa volontà di risolvere lo scarto tra l’uomo e l’artista in un film intimista. 

M.P: Questa era la base del documentario, nel senso che era proprio quello che io volevo raccontare e Adele e Ilaria hanno appoggiato l’idea al cento percento. Gli incontri portano sempre avanti il racconto in prima persona. Anche nella scelta di chi intervistare, ho fatto molte interviste preliminari e ho cercato di non fare una cosa che secondo me viene fatta spesso da chi l’ha conosciuto, cioè usare Ghirri per parlare di se stessi. Invece io volevo usare delle persone che avevano un rapporto umano, stretto e molto intimo con Luigi Ghirri. Secondo me la particolarità degli incontri, io le chiamo interviste, ma nel documentario sono proprio incontri, è che queste persone sono molto diverse tra di loro, alcune volte agli opposti, ed è una ricchezza. Questa diversità l’ha fatto crescere sia da un punto di vista umano che artistico e io volevo restituire questa cosa qua.

Ci sono altri due concetti che emergono chiaramente nel documentario: la memoria e questo sguardo quasi fanciullesco sul mondo, uno sguardo puro. Come si manifestava questo suo modo di guardare nell’ambito familiare, domestico?

Ilaria Ghirri: Tantissimi ci dicono che dalle sue foto sembrava malinconico, oppure simpatico. Io quando lo penso lo penso sempre con la macchina fotografica perché è stato un mezzo conoscitivo straordinario, che lui usava per ritornare proprio su quelle che chiamava le tracce di Pollicino, quindi una memoria a ritroso, su un’infanzia che non ha mai abbandonato del tutto. Era una persona estremamente giocosa, ironica, estremamente tenera. E la fotografia è stato un mezzo straordinario per raccontarsi. Ma ha anche individuato secondo me questa pulizia che è sempre rimasta in lui, questa etica, questo modo di vivere il mondo in modo così fiducioso, spontaneo, una curiosità a 360 gradi.

A.G: Io credo che di fondo le immagini di Luigi ti insegnino a guardare il mondo restando sempre a un livello umile. La consapevolezza che c’è una misura. Devi capire che non puoi guardare il mondo con arroganza. Non puoi porti in questo modo. Oltre al fatto anche che in un’epoca in cui c’è questa continua onnipresenza della fotografia anche in una maniera quasi aggressiva, a me, e spero a tanti altri, insegna a fare sempre un passo indietro rispetto alle cose. Niente di antico sotto il sole raccoglie tutto il suo pensiero, uno sguardo capace di stupirsi, perché appunto non c’è nulla di antico sotto il sole, ogni cosa è nuova, ogni cosa nell’atto di guardarla può rivelare qualcosa che ti sorprende. E quindi lo sguardo come processo di riattivazione, di ricordo. Nel momento in cui guardi una fotografia tu riattivi un ricordo e diventa presente, questo è l’elemento della memoria di cui parlava Matteo.

Proprio in relazione a questa riattivazione dei ricordi, come si tiene attiva, viva, la memoria a distanza di trent’anni? E ci sono materiali ancora inediti e che volete restino tali?

I.G.: Deve esserci sicuramente un senso, un’idea narrativa, che sta sempre alla base del suo pensiero, ma l’importante è sapere che in teoria i percorsi sono infiniti. Poi è chiaro che vanno guidati, mediati, ben pensati.

A.G: Questa frase, niente di antico sotto il sole, con cui Luigi descriveva tutta la sua opera fotografica e poi anche testuale, può essere applicata anche allo stesso archivio. Che cos’è un archivio di fotografie? Lui non c’è più e ha lasciato dietro di sé tantissime immagini. Noi come eredi come possiamo raccontare queste immagini? Dobbiamo rimanere incasellati in una logica di mausoleo, di archivio-tomba che rimane chiuso su se stesso? Secondo me invece è molto importante anche far vedere immagini nuove, che non ha mai visto nessuno, rivelare e svelare. Luigi ha fotografato molto, ci sono 144 mila scatti negativi, quindi chiaramente le pubblicazioni sono frutto di un processo di selezione e noi, nel proporre nuove visioni, dobbiamo dire al pubblico cosa lui aveva scelto e cosa no. Ci facciamo affiancare da curatori, studiosi, c’è uno studio dietro e il coinvolgimento di persone come appunto Carlo Arturo Quintavalle che è uno storico dell’arte che si è occupato di Luigi. Però è importante vedere l’archivio come un serbatoio, da cui estrarre, attingere immagini nuove, sempre guidate dal principio che non c’è niente di antico sotto il sole.

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