Karlovy Vary 42 – Nel segno del silenzio e della sospensione
Un nuovo cinema tedesco esiste. E non è Le vite degli altri o un pessimo film come Quattro minuti. Ottima quindi la scelta del Festival di Karlovy Vary di scegliere, per il concorso internazionale lungometraggi, Karger, opera prima di finzione di Elke Hauck. Nel segno di un filmare che crea emozione e sussulti generati da una camera a mano che raccoglie complice le istanze dei personaggi (primarie: il bisogno di un amore, di un contatto, di un lavoro, di piccoli gesti indispensabili al respiro quotidiano…).
Che il cinema tedesco stesse vivendo una stagione ricca di sorprese, una sorta di nouvelle vague nel senso più intimo di quel percorso, per pensiero, gesti, sguardi, lo si era capito da almeno un paio d’anni. Incontrando per festival, o, un passo prima, nella ricerca compiuta ovunque nel mondo di nuovi film per festival, una moltitudine di opere tedesche – spesso brevi nella durata, talvolta imperfette, sinceramente intriganti e fuori standard – inscritte in un sentire fílmico dal respirosguardo aritmico, abitato da pulsioni, flagranze, scarti sensuali e nervosi. Per dire, da uno spazio sicuramente trasversale e ancora troppo poco, o per nulla, indagato, che un nuovo cinema tedesco esiste. E non è Le vite degli altri o un pessimo film come Quattro minuti. Ottima quindi la scelta del Festival di Karlovy Vary di scegliere, per il concorso internazionale lungometraggi, Karger, opera prima di finzione di Elke Hauck (dopo il mediometraggio documentario 7 Ärzte 1 Leiche/The forensic pathologist, Professor Otto Prokop, del 1997, e il lungometraggio documentario Flügge, del 2001).
Corsivo d’obbligo perché il film nasce da un’esperienza personale della regista (una riunione di suoi ex compagni di classe) e quindi dalla sua decisione di esplorare la sua città natale, Riesa, nella Sassonia, raccogliendo ogni sorta di informazioni riguardanti quelle persone, che hanno continuato a vivere in quel luogo. Un’investigazione che ha prodotto Karger, interpretato da magnifici attori non professionisti (a partire da Jens Klemig nei panni del protagonista) che hanno portato sul set, e nelle scene, un vissuto intrecciato con quello drammaturgico dei loro personaggi. In spazi del reale, quelli di una città fra Lipsia e Dresda, in quella che fu
La scena finale, sulla quale chiudere a nero, non è quindi che l’ultimo gesto di un percorso intimamente condiviso che racconta, spesso sostando sui dettagli, frammenti nella vita di un uomo e di chi gli è stato, per poco o tanto tempo, vicino, in particolare le figure femminili incontrate nelle tappe della sua esistenza: l’ex moglie, la figlia piccola, la nuova amante barista o quella di una notte incontrata alla riunione dei compagni di classe (in una scena che porta in campo il pre-testo), o l’adolescente incrociata in discoteca e poi altrove, e la sorella, la madre… Un uomo, Karger, dal corpo massiccio e dall’andatura ingombrante, che se ne va in giro nel freddo con lo stesso giubbotto di jeans e con la borsa di lavoro, avvolto in una sua solitudine addormentata, che non può non far pensare al Franz Biberkhopf che si trascinava, nella Berlino di un’altra Germania, nelle pagine di Alfred Döblin e nelle inquadrature di Rainer Werner Fassbinder in quel doppio capolavoro, letterario e filmico, che è Berlin Alexanderplatz.