La caja, di Lorenzo Vigas

Terzo capitolo della trilogia sulla figura paterna, la sua assenza e la sua ricerca. A livello narrativo ci sono troppi temi e riflessioni che la regia di Vigas ancora non riesce a sostenere. Concorso

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La figura paterna e la sua assenza hanno da sempre attraversato il cinema del regista venezuelano Lorenzo Vigas a cominciare dal suo primo corto, Los elefantes nunca olvidan in cui un ragazzino armato di pistola vuole uccidere il padre. Con l’esordio al lungometraggio con Ti guardo, Leone d’oro al Festival di Venezia del 2015, il cineasta mostra che oltre all’attrazione fisica può instaurarsi un rapporto di complicità paterno-filiale come nel caso dell’uomo di mezza età e il capo di un piccolo gruppo di delinquenti. Da La caja cambia il paesaggio. Da Caracas ci si sposta tra i grandi paesaggio dominati dalle montagne e il cielo del Nord del Messico. Già negli ampi spazi non c’è però una contemplazione visiva ma la messa a fuoco di un vuoto esistenziale e fisico.

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Hatzin, un ragazzino di Città del Messico, recupera le spoglie del padre trovate in una fossa comune. L’unico legame che ha è con la nonna. Mentre sta tornando a casa però dal finestrino del pullman vede un uomo, Mario (interpretato da Hernán Mendoza), che somiglia al genitore scomparso. L’uomo inizialmente lo respinge e cerca di allontanarlo. Poi lo prende a lavorare con lui per aiutarlo a cercare i dipendenti di un’industria manifatturiera. Hatzin è timoroso ma anche affascinato dalla sua figura autorevole. Dopo un omicidio, da una parte mette in dubbio la sua figura ma dall’altra cerca di somigliare sempre di più a lui.

La caja è un film sull’identità. C’è quella di Hatzin ma, contemporaneamente, anche quella dell’America Latina, un paese dove molte famiglie sono state smembrate o cancellate a causa dei regini di estrema destra come si vede nelle immagini in tv delle fosse illegali. Il protagonista vive contemporaneamente con il dubbio e il desiderio che Mario possa essere suo padre. Ci sono dei momenti di scontro (la litigata in cui decide di farlo scendere dal posto del passeggero dal suo pick-up) ma anche di complicità (Hatzin che riesce finalmente a dirgli una bugia) e anche di aiuto quando gli suggerisce che alcuni operai hanno lavorato di più.

Nella sua linearità, La caja mostra e oltrepassa sbrigativamente le condizioni della fabbrica e la competizione sul mercato, accennata soltanto nell’arruolamento dei lavoratori sottolineata dalla frase “le ragazze cinesi hanno le mani più piccole e sono più veloci”. Più che le ingiustizie, anche economiche, come in Ti guardo gli interessano di più le emozioni e il cambiamento dei due protagonisti dopo il loro incontro. Vigas riesce a mostrare il rapporto contrastante tra distacco ed emulazione come si vede nello sguardo di Hatzin sui lavoratori della fabbrica. Il film trova il momento più riuscito nella scena del ragazzino che cammina in mezzo a una tormenta di neve. Nel cinema di Vigas c’è però ancora uno scarto troppo evidente tra la componente narrativa e la dimensione visiva che appaiono spesso staccate. In più gestisce a fatica la parte noir della scomparsa della ragazza che si lamentava delle condizioni economiche. La accenna, la tralascia, la riprende e la perde di vista di nuovo. La sceneggiatura e gli spunti avrebbero richiesto una complessità che lo sguardo di Vigas, anche in La caja, non possiede ancora.

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.6

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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