La Déesse des mouches à feu, di Anaïs Barbeau-Lavalette

Visibile online alle Giornate del cinema del Québec in Italia, la storia di crescita di un’adolescente ribelle degli anni Novanta nella provincia canadese. Un coming of age grunge e carnale

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Ogni generazione ha i suoi traumi, le sue ferite. Quegli eventi di portata epocale che segnano un punto di non ritorno. Per molti tra coloro che sono stati ragazzi all’inizio degli anni Novanta questa frattura è riconducibile a una data precisa: l’8 aprile del 1994, quando in una casa di Seattle fu trovato morto Kurt Cobain, il leader dei Nirvana. Si era sparato un colpo in testa tre giorni prima.

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Quella generazione, spesso incompresa dai propri padri e dai propri maestri, portò il lutto a lungo e tentò di trasmettere la sua lezione a quelle successive. Il film La Déesse des mouches à feu, della regista e scrittrice Anaïs Barbeau-Lavalette, fedele trasposizione dell’omonimo libro di Geneviève Pettersen, presentato alla Berlinale 2019 nella sezione Generation ed ora passato alla 18° edizione delle Journées du Cinéma Québécois en Italie, ci fa fare così un piccolo tuffo a quel passato per noi prossimo, ancora tangibile, mostrandoci in modo frontale il precario mondo dell’adolescenza vissuto in un paesino del Canada francofono degli anni Novanta. La cornice dell’opera, testuale come filmica, è dunque quella del coming of age con i classici riti di passaggio, con il nascere delle amicizie, degli amori, il conflitto con i propri genitori e con la società, ma i toni e l’atmosfera sono quelli del grunge: skate e musica rock, iniziazioni sessuali e droga. La «dea» ribelle del racconto è Catherine, una ragazza che ha appena compiuto sedici anni.  Catherine ha tre miti: il compianto angelo biondo e maledetto, che aleggia nel film come un meraviglioso fantasma, Christian F., piccola «bibbia» da custodire con gelosia, e Mia Wallace di Pulp Fiction, intramontabile icona di stile. Pochi elementi ma talmente iconici da andare a costruire immediatamente un racconto di formazione carnale, vivo, la narrazione d’una crescita e scoperta continua, con tutto il portato inevitabile di gioie e di grandi e piccole tragedie in cui in molti e molte potranno identificarsi; penso a tutti i trentenni e quarantenni di oggi che hanno ancora, nelle loro case da adulti, il poster di Cobain, dei Sonic Youth o di qualche altra band di Seattle a svettare sul letto oppure tenuto come cimelio da qualche parte in soffitta; ma non solo: la storia di Catherine è un paradigma universale nella sua semplicità, una strada percorsa da tutti e tutte, magari seguendo percorsi diversi.

Film e serie tv ce lo testimoniano, raccontando l’adolescenza da ogni punto di vista e con grande successo, anche nella declinazione ribelle e psichedelica del film di Anaïs Barbeau-Lavalette, basti pensare al successo del recente Euphoria di Sam Levinson. Come a rispondere ad un inconscia necessità di guardarsi e ritrovarsi da lontano nel tentativo di esorcizzare un’età brutale e bellissima, un’età d’inquietudini e dolori segreti, che per sua intrinseca natura o per una bizzarria del fato ha fatto sue le ultime parole di Kurt Cobain e svanisce e « brucia – velocissimamente – in una fiammata».

Ma oltre al suo portato di universalità ed alle suggestioni grunge che ci rimandano immediatamente alle opere di Gus Van Sant, da Elephant a Paranoid Park, e ad Harmony Korine e Larry Clark, La Déesse des mouches à feu ha delle coordinate geografiche ben determinate, quelle della provincia québécoise dal cielo grigio e dalle casette basse, dalle strade da attraversare in bicicletta, che il cinema giovane e autoctono ci ha fatto (ri)scoprire. Prima ancora che tramite la letteratura o la poesia, è infatti grazie alla più giovane delle arti ed ai lavori di un regista contemporaneo tanto giovane quanto prolifico come Xavier Dolan – che riecheggiano come eco costante nel film di Barbeau-Lavalette -, e prima di lui a quelli di cineasti come Jean Pierre Lefebvre e Jacques Godbout, che l’attenzione internazionale, volente o nolente, ha timidamente scoperto il Canada ed i suoi giovani. Il cinema «de jeunesse» è dunque l’essenza del cinema canadese francofono, e, come si legge nel saggio di Dominique Noguez, è forse, addirittura, l’anima stessa del paese, lo specchio nebuloso e nevoso delle sue fragilità e delle sue crisi che hanno nei ragazzi e nelle ragazze come Catherine il loro simbolo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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