L’étreinte, di Ludovic Bergery

Dai Rendez-Vous del Nuovo Sacher l’opera prima del regista francese con protagonista Emmanuelle Béart. Un silenzioso viaggio nel ritorno alla vita di una donna di cinquant’anni

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Tra i film protagonisti dell’edizione Rendez-Vous 2021 figura l’opera prima di Ludovic Bergery, L’étreinte. La stretta, l’abbraccio, la ricerca di un corpo fisico che possa finire per toccare anche quello intangibile. L’étreinte narra la storia di Margaux, una donna sulla cinquantina, da poco vedova, che studia tedesco all’università e che cerca disperatamente una rinascita, anche e soprattutto fisica. Interpretata da Emmanuelle Béart, Margaux è un esperimento decisamente riuscito nella sua commistione fra forza e fragilità, fra pulsione istintuale e razionalità. In questo ricorda una versione decisamente più soft della protagonista di Une dernière fois, presentato allo scorso TFF. Lì la protagonista cercava sensazioni fisiche estreme da vivere poco prima di ricorrere al suicidio assistito, perché “si dà troppa attenzione alle prime volte e poca alle ultime”, qui Margaux cerca invece di ricreare delle prime volte che le permettano di riprendere il discorso da dove si era interrotto. La stessa Béart ha definito il suo personaggio come una sorta di “Bella Addormentata che si sveglia, ma ha 50 anni”. Dopo aver sposato suo marito a 20 anni, Margaux ricerca quello che della giovinezza ha perso e che cerca ora, spesso goffamente, di recuperare.

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Da un lato c’è il tentativo di fare gruppo con i suoi giovani compagni dell’università (la donna legherà particolarmente con Aurélien, interpretato da Vincent Dedienne), dall’altro quello di cercare nuovi uomini e nuove esperienze che possano di nuovo farla sentire viva. Partendo da queste storie che iniziano per poi richiudersi dopo poco, Bergery tesse mano a mano la tela di Margaux, appunto in cerca di poter “ricucire” se stessa, ma sempre di più consapevole di avere in pugno soltanto brandelli che sembrerebbe impossibile legare insieme. Tutti i suoi incontri infatti si rivelano deludenti, che sia per un malessere interiore di lei stessa o per cause esterne di cui lei deve prendere tristemente atto (come la delusione dovuta al personaggio di Yannick Choirat).

Eppure Bergery non fa perdere le speranze alla sua eroina nemmeno per un secondo. Margaux cade e si rialza con la forza che molto probabilmente mancherebbe ad una donna di vent’anni. Probabilmente non è affatto conscia del fatto che tutto quello che cerca di rivivere annullando i suoi anni in realtà le è possibile soltanto grazie al non essere più giovane. La maturità della sua interiorità le permette di riflettere, di accettarsi in un modo che non avrebbe mai potuto vivere prima. Perfino nel momento in cui si abbandona ad una delle situazioni più dichiaratamente adolescenziali, ubriacandosi e finendo nella casa di un gruppo di facoltosi e depravati uomini russi, dai quali riesce a scappare fortunosamente, dimostra appunto di essere adulta seppur mantenendo la sua componente un po’ ingenua: una “donna-bambina” verdoniana al contrario.

Bergery gioca tutto il suo film su piani ravvicinati girati in 16mm, ammanta il tutto di una fotografia decisamente fredda, lasciando che sia la storia ad aggiungervi (o eventualmente sottrarvi) calore. L’étreinte infatti deve la sua riuscita all’elegante interpretazione di Emmanuelle Béart che abbracciando, come richiama il titolo, la sua Margaux, le dona il “soffio vitale” e la fa diventare donna.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.2

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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