Lette e… riviste – Abel Ferrara racconta le sue Go Go Tales

Abel Ferrara racconta la sofferta lavorazione del suo ultimo film a Cinemascope. L'accoglienza a Cannes, l'esilio dall'amata New York, e il rispetto per la sua opera di cineasta: la lunga confessione di un artista ancora molto lontano dalla rassegnazione. Go Go Tales è una storia di New York – o, più precisamente una classica storia sul classico emblema del fallimento di New York: essere costretti ad abbandonarla – che è stata girata interamente a Roma, a Cinecittà.

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Il sedicesimo film di Ferrara – e il suo secondo, dopo Mary (2005), da quando si è trasferito a Roma qualche anno fa – è la sua prima commedia brillante. C’è un’altra informazione cruciale: Go Go Tales è una storia di New York – o, più precisamente una classica storia sul classico emblema del fallimento di New York: essere costretti ad abbandonarla – che è stata girata interamente a Roma, a Cinecittà. E’ la prima volta che questo ragazzo del posto, uno dei più grandi cineasti di New York, ha dovuto trovare una controfigura per la città. Una cosa che – nel caso di questo film, è allo stesso tempo triste, appropriata, eroica e penitenziale. Ferrara ha fatto un film sul prezzo dell’indipendenza che è indipendente fino al midollo. Il film è tutto tranne che lagnoso, ma c’è una giusta indignazione strisciante: Ray non riceve alcun rispetto, e si potrebbe dire, il regista vi si identifica.

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CINEMASCOPE: Come è andata la proiezione pubblica l’altra notte?

ABEL FERRARA: Camminare sul tappeto rosso richiede più organizzazione che realizzare il film. Tutto quella curiosità e la gente che si spinge. Mi sono detto “Dio, pensa a rilassarti. Siamo qui, e abbiamo fatto il film”. (…) Non so se siamo riusciti a far ridere tanto, comunque.

SCOPE: (…) Hai avuto una prestazione quasi teatrale da Willem Dafoe

FERRARA: (…) Willem e io avevamo già lavorato insieme in New Rose Hotel (1998). Abbiamo le nostre differenze ma anche lui ora vive a Roma e quando ha letto la parte l’ha ottenuta. Quando stai per fare un film dove il protagonista è qualcuno ha le iniziali sul polsino della sua camicia, devi metterci un grosso ego mentre reciti (…) Willem capisce l’idea dell’intrattenimento, che lo spettacolo deve andare avanti, da un certo punto di vista teatrale, ed è riuscito ad interpretarla. Abbiamo provato a fare questo film per sette anni, ma non avevamo mai la persona giusta.

SCOPE: Il film è cambiato molto da come era stato come concepito? Immagino che inizialmente doveva essere girato a New York

FERRARA: E’ differente per come io sono differente. E sì, lo è nei termini in cui lo stavamo per girare. Stavamo iniziando a Wooster Street – avevamo un appartamento di tre piani e avevamo costruito quasi l’intero set – ma ovviamente non come lo abbiamo realizzato a Cinecittà (…) Era veramente a basso costo. Ma un giorno stavo camminando per Wooster Street e ho visto che il mio set era stato buttato via nel mezzo del palazzo. Non pagavamo l’affitto. Non avevamo soldi. I finanziatori se ne erano andati. Ma c’è un tempo e un posto per ogni cosa. Era qualcosa che volevo fare veramente e non l’ho mai abbandonato, e allora ce ne siamo venuti insieme in Italia (…)

SCOPE: Il Paradise si ispira ai club in cui andavi di solito?

FERRARA: Questi go-go clubs aprivano e chiudevano continuamente. Qualche volta erano così di moda – ci andavi e vedevi limousine parcheggiate sotto al palazzo e attrici di Hollywood saltavano sul palco. Ma qualche volta andavi e li trovavi chiusi. Ricordo di essere andato in uno di questi e Leonardo DiCapio era lì e ricordo che c’era anche Matt Dillon e, come dire, era un club di classe. (…) Il Limelight era uno sballo, e anche quella strada, ovunque andassimo avevamo drink gratis, New York era bella, ma era anche cattiva. Tanti si facevano di crack e la gente veniva ammazzata, le droghe erano un incubo. Ma quando è arrivato l’11 settembre, ha messo fine a tutto.

SCOPE: Ma le cose erano già cambiate con Giuliani

FERRARA: Dovevano essere cambiate, ma l’11 settembre – è stata una ferita al cuore della città. Per me, la vita è prima e dopo. Non avrei immaginato, a quel tempo, che quella era l’età dell’oro di New York.

SCOPE: Ti sei spostato a Roma proprio dopo l’11 settembre?

FERRARA: No, abbiamo resistito più a lungo che abbiamo potuto. Ma è diventato molto difficile fare film, e per me è diventato molto difficile persino voler fare un film. Non volevo lasciare New York. La maggior parte dei miei film è finanziata tanto in Europa che negli Stati Uniti, e non è un grande affare per noi venire a girare in Francia o in Italia – puoi vedere come la gente si comporta con me qui. Lasciare New York quando non fosse stato il momento giusto sarebbe stato ancora più difficile. Ci sono cresciuto e c’era l’atmosfera dei film indipendenti, Jim Jarmusch e Spike Lee, c’era un mondo di film e di filmmakers e poi è capitato tutto all’improvviso (…)

SCOPE: Il discorso di Ray alla fine del film è davvero eccezionale, e sembra che dentro ci sia molto di te.

FERRARA: Spero che dentro ci sia il 110 per cento di me. Ad un certo punto, il personaggio deve esprimersi (…) Vuoi stare lontano dall’idea che il tuo attore principale stia per fare il grande discorso, ma c’è un punto dove lui deve veramente dire dove si trova, sai? Ray il re del divertimento, sta dando a tutti quello che vogliono, sta girando intorno al discorso, ma a quel punto deve centrarlo. E Willem l’ha capito. Il gioco era nelle sue mani – e lui poteva sia vincere che perdere la partita. La sua vita era in bilico, sapeva che c’era un solo modo per risolverla (…) Ma quell’uomo si alza e dice, “So cosa voglio”. Sa cosa fare dopo. Certo, è un giocatore d’azzardo, ma forse è proprio perchè è un giocatore esperto, che è un giocatore d’azzardo.

SCOPE: Vuoi dire che è il film più personale o il film più sentito che tu abbia mai fatto?

FERRARA: Spero di no. Voglio dire, spero di sì. Assolutamente. E’ il mio film più sentito. Ma che dire degli altri? Sono film meno sentiti? Scherzi a parte, si fanno i film sui personaggi, e non si è mai il personaggio, capisci? Non sono così egocentrico (…) Devi essere sincero con i personaggi, è proprio così che deve essere, per me e gli attori. E io e l’attore dobbiamo stare vicini per capire veramente come creare la sua personalità. Willem non è Ruby e non lo sono nemmeno io, ma noi sappiamo chi è veramente Ruby. Noi lo abbiamo centrato, e allora anche noi siamo un po’ lui. Ma non penso di voler essere troppo come Ray Ruby (…)

SCOPE: Alcuni critici hanno paragonato Go Go Tales a Radio America: sono entrambi film d’insieme molto personali sul mondo dello spettacolo. E l’ambientazione del club ricorda quella di Assassinio di un allibratore cinese. Avevi in mente questi film?

FERRARA: Cassavetes e Woody Allen erano i miei riferimenti. Assassinio di un allibratore cinese (1976) e Broadway Danny Rose (1984) (…) Credetemi, io non mi ci metto tra questi cineasti. Ad un certo punto volevamo usare Ben Gazzara, perché anche lui era in Italia, ma non ho avuto il coraggio di farlo.

SCOPE: Sei un po’ ottimista verso il futuro?

FERRARA: Ci sono così tanti modi di lavorare, e li voglio provare tutti (…) Ma hai bisogno della libertà e hai bisogno del rispetto. A New York c’era sempre rispetto per i film. Jim Jarmusch è rispettato sulla piazza (…) Alla fine, avendo avuto il coraggio di lasciare New York, una volta che lo fai, trovi dei posti. Trovi che vogliono fare dei film a Shanghai, o in Corea. Fino a quando vuoi fare dei film, questo non importa, non so nemmeno se hai bisogno di imparare la lingua. Ci sono un sacco di modi per andare. Ma l’unica cosa è che ovunque vai abbiano rispetto per quello che stai facendo.

ONE FROM THE HEART: ABEL FERRARA'S GO GO TALES di Dennis Lim – CINEMASCOPE N.31
www.cinema-scope.com/cs31/int_lim_ferrara.html

Traduzione di Emanuele Di Porto

CinemaScope, edito a Toronto, è il mensile canadese di cinema supportato dal Canada Council For Arts e dall’Ontario Arts Council. Oltre a dedicare ampio spazio alle recensioni e alla parte più tradizionale della critica cinematografica, CinemaScope è molto attento al panorama DVD, alle contaminazioni tra cinema ed altre arti e al rapporto tra celluloide e industria editoriale. Ogni mese la sezione ‘spotlight’ mette in primo piano un approfondimento: dal cinema anglosassone/canadese ai film non distribuiti, dai segmenti di storia del cinema all’attualità dei vari festival. Il taglio della rivista tende poi soprattutto a focalizzare l’attenzione sui singoli autori, sia attraverso lunghe interviste che con servizi monografici. Il sito della rivista, visivamente curatissimo, rende disponibili on-line molti degli articoli di tutte le sezioni, oltre che i contenuti dell’archivio e l’abbonamento o acquisto di copie.

 

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