Little Girl Blue, di Mona Achache

In anteprima ai Rendez Vous del cinema francese a Roma, il doc di Mona Achache è un racconto al femminile privato e generazionale di sua madre Carole, che rivive nel corpo di Marion Cotillard

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Il tuo futuro non è qui. Non è nelle cartelle, nei documenti, nei file, nelle registrazioni, negli indizi disseminati ovunque, come briciole di pane per essere ritrovata, lasciati da Carole Achache per tutta una vita, come se avesse sempre immaginato che un giorno qualcuno avrebbe ricomposto i pezzi del suo puzzle. A scoraggiare questo tentativo di “comprendere l’incomprensibile” è la figura paterna, la voce della ragione. Una voce che Mona Achache affida a un cappotto e un cappello appesi ad un attaccapanni. Perché quella del padre, così come quella degli altri uomini che appaiono di sfuggita in questo racconto, è una figura in assenza. Il cuore della sua storia è tutto al femminile.
Little girl blue racconta tre generazioni di donne. Di madri ma soprattutto di figlie.
Quella della stessa Mona, regista e documentarista da sempre attenta all’universo femminile, sin dall’esordio con Il riccio – dove narrava il bizzarro incontro di anime tra un’undicenne intelligente ma chiusa al mondo e una portinaia volutamente invisibile ma brillante, coltissima – e con Le donne e l’assassino, caccia all’uomo riuscita grazie al sodalizio tra l’inquirente e la madre di una vittima.

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Quella di Carole, che figlia si era apertamente dichiarata in un’autobiografia dolente, Fille de, raccontando un’infanzia tanto intellettivamente stimolante quanto turbata da abusi emotivi all’interno del circolo culturale di sua madre. E, infine, quella di Monique Lange, figura di spicco della scena letteraria francese del Dopoguerra, editor di Gallimard e scrittrice lei stessa, amica intima di Jean Genet, Marguerite Duras e tanti altri. Una famiglia di donne brillanti eppure vittime di un genere, di un’epoca, di un destino subito come una maledizione inevitabile e invece ora, in questa inchiesta della nipote diventata un’artista più libera di quanto non potessero essere nonna e madre, riletto come una stortura dei tempi.

Diari, romanzi, pensieri affidati a un registratore. Una mole impressionante di materiale incandescente da smorzare emotivamente per riuscire a ragionare con lucidità. Mona Achache si affida allora a una persona esterna, a un’attrice, per dare corpo alla voce di sua madre. Ed è qui che entra in scena Marion Cotillard, alle prese con una delle performance più intense e difficili di una filmografia già impressionante. L’attrice irrompe nell’appartamento-set, con le stanze dalle pareti mobili, ad esibire il mezzo, il percorso creativo, e fa lo stesso con il proprio corpo. Si denuda per diventare Carole, indossarne gli abiti, la collana, la borsa. Si muove, sigaretta tra le labbra, sotto un soffitto di parole, di fogli battuti a macchina, testimoni di una vita pensata ancor prima che agita. E si offre in un playback vorticoso che, attraverso la viva voce della donna, racconta di un’infanzia rubata e di una giovinezza vissuta in un tentativo di liberazione spesso affine all’autodistruzione, tra il Sessantotto parigino e la New York degli anni Settanta.

Pur lavorando su scenari non inediti – raccontare la madre scomparsa attraverso materiale di repertorio è un sentiero già intrapreso da varie autrici, dalla Alina Marazzi di Un’ora sola ti vorrei al recente Amor di Virginia Eleuteri SerpieriLittle girl blue riesce a riannodare attraverso i frammenti epistolari e diaristici settanta anni di pensieri, paure e  ossessioni femminili, in percorsi distanti eppure indissolubilmente legati. Lo fa mantenendosi su un sottile equilibrio retto da un distacco intellettuale rispetto alla materia, che si scioglie solo a tratti, con l’abbraccio per procura a una madre forse finalmente compresa, e con lo scenario finale, una spiaggia animata e astratta su cui scorrono in filigrana le opere di tante preziose cineaste che oggi non sono più con noi, da Chantal Akerman ad Agnès Varda.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

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