Miracol, di Bogdan George Apetri

Con Miracol Apetri si inscrive a pieno titolo tra i protagonisti emergenti di questa “miracolosa” generazione di registi rumeni che sta ridefinendo i confini del cinema moderno europeo. Orizzonti

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«Non voglio che la percezione della presenza del regista e le sue scelte di inquadratura decidano per te cos’è importante nella scena o cos’è da tenere in secondo piano. Dobbiamo rispettare la complessità della vita: nella vita nessuno decide i tagli di montaggio per noi» (C. Mungiu).

Questa frase di Cristian Mungiu sintetizza straordinariamente l’approccio estetico che accomuna (con le dovute differenze) quella generazione di registi rumeni ormai nota come “Romanian New Wave”. Una comoda etichetta critica nata a Cannes nei primi anni Duemila con i premi vinti da La morte del signor Lazarescu di Cristi Puiu, A Est di Bucarest di Corneliu Porumboiu e 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu, per poi consolidarsi nella Berlinale con i premi a Il caso Kerenes di Călin Peter Netzer, Aferim! di Radu Jude e Touch Me Not di Adina Pintilie. Nomi noti a cui vanno aggiunti importantissimi percorsi autoriali come Cristian Nemescu, Cătălin Mitulescu, Radu Muntean, Adrian Sitaru, ecc. Cineasti certamente diversi come cifra stilistica e consuetudini produttive, eppure uniti da una simile riflessione estetica sull’eredità del Secolo Breve come reale rimosso che preme sul presente rumeno. Istituzioni come la famiglia, la religione, la polizia, i tribunali, la scuola vengono testardamente sondate come dispositivi disciplinari che spingono l’individuo a sondare l’oblio della memoria aprendo i tribolati destini dei vari protagonisti agli echi e alle ombre del passato totalitario.

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Arriviamo al punto. Bogdan George Apetri presenta nella sezione Orizzonti di Venezia78 il suo notevole terzo film da regista, Miracol, diviso in due capitoli. Cristina, una ragazza che ha deciso di diventare suora praticando da poche settimane la vita del monastero, esce dal suo isolamento per andare frettolosamente in città e confidare un segreto a un poliziotto. Non riesce a trovare l’uomo e decide così di rientrare, ma il tassista che la accompagna si rivela un mostro. La seconda parte del film pedina Marius (il poliziotto di cui sopra) mentre indaga sulle violenze subite da Cristina ripercorrendo il suo breve viaggio e cercando di comprenderne le misteriose motivazioni. Cosa cercava la ragazza in città? Come far confessare il tassista che non ha lasciato prove evidenti della violenza? E soprattutto, perché Marius è così coinvolto nel caso di Cristina?

I necessari rimandi narrativi per comprendere il portato sociopolitico della storia – all’interno delle singole parti e specularmente tra una e l’altra – sono delegati solo a piccoli scarti nel flusso di azioni rispettate nel loro tempo di esecuzione attraverso l’utilizzo reiterato del piano sequenza. Un movimento non sempre giustificabile o giustificato (Cristina e Marius hanno zone d’ambra insondabili che significano in quanto tali aprendosi a una sincera comunicazione emotiva con lo spettatore) con stacchi di montaggio dettati solo dalle contingenze frammentate: la complessità della vita ricercata da Mungiu, appunto. Cristina è incinta, ma di chi? Il tassista si scopre un brutale violentatore (in una scena che gela il sangue per l’orrore represso che cova in figure apparentemente paterne), perché?

Domande. Il film è pieno di domande che non trovano risposte se non nel contesto (“ma hai visto cosa c’è intorno a noi?” si continua a ripetere). Dalle istituzioni religiose (omertose) a quelle di sicurezza (innervate da istinti perturbanti con novelli Quinlan pronti a costruire prove false) sembra che né la giustizia divina né quella umana riescano a trovare la grazia di un miracolo garantendo la nascita di una nuova vita. Sino a quando Marius nella sua ambigua sete di verità arriva a sognare a occhi aperti i propri demoni riportando indietro il tempo e operando una scelta etica che spezza il flusso della violenza endemica. Il Miracolo diventa la nascita di una coscienza civile posta al di là di ogni bruttura umana che rigetti simbolicamente ogni rigurgito di passato. Insomma, con il suo terzo film Bogdan George Apetri si inscrive a pieno titolo tra i protagonisti emergenti di questa “miracolosa” generazione di registi rumeni che sta ridefinendo i confini del cinema moderno europeo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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